Napoli - «Caro Peppe, come stai? Mi auguro di trovarti in ottima forma. Sia essa fisica che morale, come ti assicuro di me. Come vedi è da molto che non ti scrivo, ma come quasi sempre neanche tu scrivi neppure un rigo. Ma ciò non cambia niente, perché io ti voglio un gran bene. Forse tu non lo sai, ma io sono orgoglioso di te». È la lettera che il camorrista ergastolano Giuseppe Orefice, capo dell'omonimo clan, dal carcere di Cuneo, dove si trova recluso in regime di 41 bis, scrive al figlio maggiore, Giovanni, 23 anni.
Le prime sette righe della lettera farebbero supporre alle amorevoli attenzioni di un padre, costretto in una cella, nei confronti del figlio che vive lontano, a Pollena Trocchia, nel Napoletano. Invece, il significato della missiva è ben diverso: il boss scrive al primogenito per imporgli l'investitura di camorrista. Dà al figlio il suo nome, Peppe, perché da quel momento dovrà essere come lui: anzi, dovrà impersonarlo in tutto e per tutto, ai vertici della cosca. Dovrà dare ordini ai gregari, decidere le strategie, le alleanze, gli uomini che devono continuare a vivere e quelli che invece devono morire.
«Prima di tutto da ora in poi ti chiamerò Peppe e dirò anche agli altri familiari di fare lo stesso perché prenderai il mio posto in famiglia», scrive il boss. Ma, la lettera scritta dal carcere di Cuneo, tre paginette, non è mai arrivata nella mani di Giovanni, perché il tenente Ingrosso, della Tenenza di Cercola, l'ha intercettata. Ma, chi conosce il ragazzo, non ha dubbi: se l'investitura di camorrista a mezzo lettera, fosse arrivata nelle sue mani, il figlio del boss sarebbe restato lo stesso un giovane perbene, «fuggito» da Pollena Trocchia, per avere una vita normale. Giovanni Orefice, infatti, da tempo vive in un'altra regione, gioca al calcio nei dilettanti, ha un lavoro e una fidanzata. Nella sua casa non si parla di pistole, spedizioni di morte, droga, estorsioni, vite umane da punire.
La lettera dell'ergastolano Orefice è stata resa nota ieri mattina, al termine di una retata di camorristi dell'area vesuviana, che fanno capo a tre clan: Sarno, Orefice e Artistico - Terracciano, federati tra loro. Tra i 61 arrestati, vi è anche Raffaele Orefice, fratello dell'ergastolano Peppe.
«Ora in questa mia - scrive il camorrista al figlio - voglio parlare con te più apertamente, perché sei un uomo e non più un ragazzino (all'epoca in cui fu scritta la lettera Giovanni aveva circa 21 anni, ndr) e per tale so che ti comporterai da Uomo ok?». Poi, l'ergastolano usa una metafora per indicare i comportamenti che il figlio dovrà tenere nel suo futuro ruolo di capoclan: «Devi continuare ad allenarti e dare tutto te stesso in allenamento e in partita, giocando per la squadra e con la squadra. Anche gli altri dovranno avere fiducia in te e tu fiducia in loro». Il patto d'onore che il camorrista intendeva stipulare con l'onesto figlio, doveva essere suggellato da un dono, un bracciale, simbolo del suo potere di capocamorra quando era ancora un uomo libero.
«Ti dissi che ti regalavo il mio bracciale - scrive il camorrista - che ho sempre portato sul braccio destro da quando ero giovane e che in tanti avrebbero voluto.
Appena ci vedremo dirò subito a tua madre di prenderlo e regalartelo». Il bracciale del boss Orefice, è restato nel portagioie della moglie: Giovanni, ragazzo perbene, ama altri simboli. carminespadafora@libero.it- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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