Carriera e privilegi: l’ultima trincea delle toghe

Le riforme all’italiana sono spesso delle incompiute. Strani centauri senza una forma definita: non mantengono quel che promettono. Così è stato, ormai più di vent’anni fa, per il debutto, fra squilli di tromba, del nuovo codice di procedura penale. Arriva Perry Mason, sostenevano gli operatori della giustizia. In realtà, semplificando con l’accetta quel che è un tema complesso, ricco di sfumature e mezzitoni, si può dire che Perry Mason è uscito dai telefilm ma nelle aule di giustizia italiane è rimasto in un angolo. Sulla carta, oggi il pm e l’avvocato si sfidano ad armi pari davanti al giudice e la prova si forma proprio in quella battaglia. Ma nella sostanza il penalista rimane un gradino sotto la controparte. E questo per la più semplice delle ragioni: perché l’impianto del nostro ordinamento è rimasto quello vecchio. Il pm è gemello monozigote del giudice che per definizione è terzo, ma nella sostanza è indistinguibile dal collega che rappresenta l’accusa. La carriera è la stessa, con chance esponenziali di cambio di binario, idem il Csm e tutto il resto. Giudici e pm hanno la stessa mentalità, bevono insieme il caffè e pranzano insieme.
Ecco perché una riforma, vera e non all’acqua di rose, può dare un contributo decisivo alla giustizia italiana. Sia chiaro, già oggi ci sono fior di giudici che calibrano al millimetro sentenze equilibratissime in cui le ragioni dell’accusa e quelle della difesa sono valutate senza pregiudizi. Ma la contiguità, in qualche caso la sudditanza, del giudice verso il, è un nodo che dev’essere affrontato.
La magistratura, come tutti i poteri, è per sua natura conservatrice, arroccata nelle sue convinzioni e nei suoi inevitabili privilegi. Dunque teme, anche in buonafede, uno sconvolgimento e un deragliamento. Può essere, come sempre quando si cambia. Ma la speranza è che la separazione delle carriere e il doppio Csm, due dei pilastri del testo che oggi Angelino Alfano porterà in Consigli dei ministri, diano risposta alle attese dei cittadini. Sarà così? L’Associazione nazionali magistrati teme un pm azzoppato, indebolito e, soprattutto, sotto il tallone dell’esecutivo. È un ritornello, anzi un girotondo che si ripete dal ’94 quando il primo governo Berlusconi lanciò con baldanzosa ingenuità l’idea del cambiamento. Il rischio c’è, ma la norma prevista dal Guardasigilli dovrebbe contenere gli anticorpi necessari a scongiurare il pericolo: si possono separare le carriere e creare due Csm senza trasformare i pubblici ministeri in funzionari alle dipendenze del governo. Basta dirlo.
Autorevoli esponenti dell’Anm affermano che la riforma ha intenti punitivi. Ciascuno può giudicare da sé, ma è semmai probabile che la nuova architettura del sistema giudiziario dia un colpo al partito dei giudici. Che è un’altra cosa rispetto alla magistratura. Insomma, da troppo tempo si grida al lupo senza che si sia mai mossa una foglia. Si sono persi anni e anni in estenuanti dibattiti sulla separazione non delle carriere ma delle funzioni e il risultato di questo dibattito surreale è che nulla è cambiato. Certo, differenze anche minime possono portare a grandi disastri. L’azione penale non sarà più obbligatoria? Mettere mano all’articolo 112 della Costituzione è impresa da far tremare le vene dei polsi, perché il rischio, devastante, è quello di perdere per strada l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma va detto che già oggi l’obbligatorietà è una chimera, migliaia e migliaia di fascicoli vanno al macero perché non si possono perseguire contemporaneamente milioni di notizie di reato. Dunque, occorre scegliere. E, a pensarci bene a costo di essere schematici, è forse meglio che sia il parlamento, attraverso una legge, a dettare le linee della politica giudiziaria e non un pm arroccato nel suo ufficio. Con la nuova Costituzione il potere, il potere discrezionale del pm, diminuirà e questo può spiegare, almeno in parte, il disagio di molte toghe.
Il tema è difficile e scivoloso, dev’essere affrontato laicamente ma da troppi anni i magistrati si mettono puntualmente di traverso. No al cambiamento. No. No a tutto anche se il sistema fa acqua. Armando Spataro, uno dei più autorevoli pm italiani, parla di «risposte epocali» alla bozza Alfano. La verità è che la corporazione fa quadrato. Teme un’Alta corte, divisa nel progetto Alfano in due sezioni, che colpisca con la necessaria severità le mele marce. Non gradisce che il tema incandescente della responsabilità civile esca dalla fumosa e irresponsabile astrattezza di oggi, perché chi ha sbagliato risarcirà di tasca propria le vittime della giustizia sommaria. E non vuole allentare il controllo - garanzia di legalità, ripetono i pm - sulla polizia giudiziaria. Ma il fallimento di molte indagini sui grandi delitti fa capire che, anche su questo versante, il meccanismo dev’essere rivisitato.
Il parlamento, maggioranza e opposizione, potrà costruire nel dialogo un testo condiviso.

Togliere, aggiungere, mediare. Speriamo senza cortocircuiti con i processi del Cavaliere. E senza incroci pericolosi con altre leggi, quelle che infiammano l’opinione pubblica. Ma anche senza ridurre la riforma ad un superficiale maquillage.

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