«Caschi blu per garantire la transizione»

Gheddafi come Saddam. Tripoli come Baghdad. Un confronto che ricorre e risveglia l’incubo dell’Irak, la paura che anche la Libia possa trasformarsi in un terreno di guerriglia senza fine, di attentati spietati, di caos amministrativo, di transizione difficile e leadership debole. Eppure per il generale Carlo Cabigiosu, ex consigliere militare della missione italiana in Irak e consigliere militare della Nato - nonostante gli interessi divergenti presenti nel Paese e i grossi rischi della fase di transizione - la Libia non si trasformerà in una polveriera come l’Irak.
Non assisteremo a un’esplosione incontrollata della violenza?
«È possibile che qualche forma di resistenza avvenga ancora. D’altra parte è stato possibile alle forze residue di Saddam contrastare le truppe americane e inglesi in Irak e potrebbe essere più facile per le forze leali al regime fare lo stesso con le truppe del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), che non sono certo organizzate come gli americani in Irak».
Sarà guerriglia a oltranza?
«Può darsi che qualche gruppo estremista islamico tenti di cavalcare questa situazione a proprio vantaggio. Ma molti libici hanno ben presente il modello di vita occidentale e sanno quanto si possa vivere bene sfruttando le risorse del Paese anziché impelagarsi in un confronto ideologico e religioso che produrrebbe solo miseria».
Transizione e stabilizzazione saranno lunghe e difficili?
«Ci sono molte tribù con interessi diversi, contrasti molto forti tra bengasini e tripolitani, c’è l’irredentismo berbero e poi ci sono gli interessi internazionali e soprattutto quelli petroliferi. Ma nel Paese ci sono personaggi importanti, dal presidente della Banca centrale al ministro del Petrolio ad esponenti militari e della polizia, che hanno abbandonato il regime quando è cominciata la rivoluzione e sono disponibili a riprendere un posto e aiutare la transizione».
La Gran Bretagna pare voglia mandare una squadra di esperti per evitare il caos amministrativo del dopo Irak. È una soluzione?
«Bisogna vedere quanto sia un intervento a vantaggio della Libia o un modo per insinuare propri uomini nei meandri della nuova struttura del Paese. È vero che gli inglesi hanno una squadra di circa 300 esperti di pronto intervento, tra cui militari, economisti, linguisti ed amministrativi. È una task force dedicata al supporto di un governo che si sta ristrutturando».
È plausibile, come ha detto il leader dei ribelli, Mustafa Abdel Jalil, che si svolgano libere elezioni entro otto mesi?
«Di elezioni tenute in tempi piuttosto brevi ne abbiamo molti esempi, dai Balcani, all’Irak all’Afghanistan, ma sono elezioni di facciata che non hanno risolto il problema della stabilità interna politica e di un governo che può reggere le sorti di questi Paesi».
La pace è lontana?
«È interesse di tutti cercare di trovare una soluzione e garantire il benessere che c’era prima con Gheddafi, quando i libici avevano un reddito pro capite annuo di 27mila dollari, fra i più alti di tutta l’Africa. Certo la ricchezza non era distribuita equamente e ora bisogna cercare di combinare libertà e benessere. Ma le risorse per fare un Paese libero e ricco ci sono».
Arriveranno i caschi blu?
«Passata la fase della guerra guerreggiata, la Nato dovrà attendere che ci siano delle decisioni da parte dell’Onu. Se ci sarà esigenza di una forza militare che garantisca transizione e stabilità ci vorrà un contingente internazionale che favorisca questo processo».


Per l’Italia sarebbe troppo rischioso farne parte?
«Non dimentichiamo che siamo in un Paese che è stato un ex colonia e che è vicino a Paesi che sono stati ex colonie di Francia e Regno Unito. Questi precedenti giocheranno un ruolo: nessuno vuole soldati che diano la parvenza di un neocolonialismo».

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