Il messaggio di Fausto Bertinotti a Fidel Castro è irrituale dal punto di vista protocollare e scandaloso dal punto di vista politico. Le buone usanze formali delle cancellerie esigono una buona dose d'ipocrisia. Si può perciò capire benissimo che un capo di Stato debba esprimere voti augurali anche a un «collega» del quale ha la massima disistima. In quei casi l'insincerità è non solo ammessa, ma doverosa. Il Presidente della Camera non ha queste incombenze. Occupa una carica - la terza nella gerarchia istituzionale - che è importante, e che simboleggia la regola prima della democrazia: ossia il rispetto e l'espressione della volontà popolare attraverso assemblee liberamente elette.
Un presidente della Camera che si rivolge affettuosamente a un dittatore dal quale questi principi sono stati calpestati per decenni rinnega l'essenza del suo mandato. Un «tradimento» reso ancor più grave dal fatto che gli atti e i detti del presidente possono essere interpretati come un sentimento dell'assemblea nel suo complesso.
Il testo bertinottiano prende furbescamente qualche distanza da Fidel con l'accenno ai «dissensi lealmente espressi». Ma questo untuoso distinguo appartiene al repertorio lessicale della sinistra quando si riferisce agli errori - il termine crimini è scrupolosamente evitato - di personaggi che le stanno a cuore. È il lessico per cui i brigatisti rossi diventavano «i compagni che sbagliano». Il dissenso da Castro è felpato, ossequioso. Diventa di colpo orrore, ribrezzo, indignazione se la repressione autoritaria può essere riferita a un Pinochet o ai colonnelli greci. È un luogo comune, ma è anche una malinconica verità, l'affermare che i prigionieri delle polizie di destra meritano una solidarietà degli intellettuali (e una organizzata emozione popolare, con cortei e sit-in) che ai prigionieri delle polizie di sinistra sono negate.
E c'è di peggio. Bertinotti non si limita a celebrare l'importanza storica della figura di Fidel Castro (un'importanza che anch'io mi guardo bene dal negare). Non bastandogli questo, Bertinotti attribuisce a Castro il merito d'avere, insieme a Cuba, interpretato «l'orgoglio di un popolo e di un'isola che vuole avere la sua indipendenza e decidere autonomamente del suo futuro e del suo destino». Se non sapessimo che Bertinotti è piuttosto impermeabile all'umorismo, gli attribuiremmo la maliziosa intenzione di prendere per i fondelli il Comandante. Qualche volta i subcomandanti lo fanno.
Purtroppo Bertinotti dice sul serio. Decidere autonomamente? Ma a chi lo vuol raccontare il leader di Rifondazione comunista? Nulla è autonomo e libero a Cuba, l'informazione giornalistica si esprime in un foglio nauseante, Granma, gli affari pubblici sono segreti - inclusa la malattia di Fidel - per tutti, tranne che per un manipolo d'iniziati. Questa Cuba che secondo Bertinotti forgia autonomamente il suo destino è soggetta a una dinastia comunista (da fratello a fratello) come quella della Corea del Nord (di padre in figlio). Castro, beninteso, è meglio del suo compare di Pyongyang, ci vuol poco. Ma in comune hanno il viziaccio del carcere per chi la pensa diversamente da loro e dai loro pretoriani. In Italia Fidel ha estimatori ferventi soprattutto nei due partiti che nell'etichetta ostentano il termine comunista.
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