CATTEDRALI Gloria del Medioevo

Una nuova lettura dell’arte dell’«età di mezzo» proposta da Arturo Carlo Quintavalle

In origine vi è il mondo barbaro, informe e devastatore, che abbatte Roma e le sue vestigia. Poi - parentesi carolingia a parte - vi è il lento e gravoso lavorìo del romanico, il faticare di artigiani ignoti sulla pietra per cavarne qualche lampo di forma, tra simboli demoniaci e infernali, sotto la chiave di volta e di interpretazione del Giudizio ultimo. Infine, al culmine dei secoli e dell’arte medievale, sboccia il gotico, con la sua leggerezza e bellezza, il gioco della luce e delle pietre, il canto delle volte, lo slanciarsi dell’ogiva. Si tratta di uno schema «classico» di racconto dell’arte medievale, incentrato su un concetto evoluzionista, che non sarà difficile trovare annidato nelle menti di molti.
A questo modello culturale si oppone ora la mostra curata da Arturo Carlo Quintavalle per i novecento anni della cattedrale (e il battistero, naturalmente, la piazza e altro ancora) di Parma. Per farlo il docente di storia dell’arte medievale nella stessa città emiliana traccia un percorso denso e articolato e, in più, scolpisce un intero catalogo (Il Medioevo delle cattedrali. Chiesa e Impero: la lotta delle immagini, Skira, euro 70) a guisa di capitello, con le sue 750 pagine e oltre 750 immagini (da musei e chiese, con sculture lignee e litiche, architetture e miniature, capolavori di oreficeria e mosaici, frammenti e particolari e ancora altro, ma non pitture) pensato come icona di un nuovo modo di concepire l’arte medievale, e in specie la «cosiddetta arte lombarda» dei secoli XI e XII.
Quintavalle propone di rileggere l’arte di quel periodo alla luce di un sistema di racconto, anzi di un vero e proprio progetto iconografico promosso e in certa misura imposto dalla committenza agli architetti responsabili delle migliori officine, con il loro insieme di lavoratori della pietra e del metallo, dell’argilla, del vetro e dell’arte musiva. Propone dunque di svincolarsi dal concetto di «scuole» artistiche legate alla mano - o meglio alle mani - dei diversi Gelduino, Gisleberto, Wiligelmo e Nicola che puntellano i manuali di storia dell’arte medievale (rari nomi tra un mare di anonimati) per concentrarsi sulle strategie culturali e di comunicazione che i committenti perseguono e che affidano appunto a quei maestri, a quelle officine.
È una «ipotesi di lavoro» da verificare, come il curatore precisa all’inizio del suo percorso interpretativo. Perché si tratta, una volta di più, di confrontare e datare, di stabilire nessi e rapporti alla luce di un’idea previa, di un vero e proprio a priori ideologico condensato nell’espressione «riforma gregoriana». Ovvero quel vasto e pluriforme movimento di riforma che interessò la Chiesa e la società medievali proprio tra XI e XII secolo, che ebbe nella lotta per le investiture uno dei suoi epicentri e che finì con il disarticolare prima e capovolgere poi i rapporti di potere all’interno della Cristianità tra sfera laica e sfera spirituale, che poi significava per alcuni ecclesiastica.
Gregoriana, perché ebbe in papa Gregorio VIII (1073-1085) l’uomo di maggior spicco ed eco, anche se fa specie osservare come Quintavalle scriva Riforma Gregoriana con le maiuscole quando gli storici da tempo applicano a quell’espressione le stesse cautele che lui usa per l’arte «lombarda». Ma sono quisquilie nominalistiche, che suggerisco sempre di temperare alla luce del nostro obiettivo di conoscenza. E l’impresa tentata dallo storico dell’arte è titanica e meritoria, perché riconduce al centro della riflessione storico-artistica la politica e il dramma della storia, le sue tensioni ideali e ideologiche, i suoi conflitti istituzionali nei riverberi - spesso splendidi, a volte sontuosi e ammalianti - artistici e immaginificamente culturali.
Come quando si spinge sino a proporre l’individuazione di un «codice» narrativo e iconografico, dove il ruolo della Chiesa si rispecchia in quello dei suoi simboli - la croce, il pastorale, l’anello - o meglio in quelli che il papato e gli ambienti riformatori propongono, diffondono, impongono. Una sorta di dictatus papae applicato al dominio dell’immagine così come l’originario dictatus di Gregorio VII era concepito per il diritto e il conflitto polemico ai massimi livelli del mondo cristiano occidentale. Come per esempio la riproposizione del modello di San Pietro, nel senso proprio della chiesa petrina di Roma, in concomitanza - e concorrenza? - con l’altro modello per eccellenza del tempo medievale, ovvero il Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Ne risultano relativizzati e, in certi casi, persino squalificati altri approcci, come quello stilistico, tipologico e formale, in quanto «antistorico», perché presuppone una lettura con occhi moderni e non medievali.

Ma anche altri schemi, per esempio l’evolutivo - lo dicevamo in apertura - che prevede necessariamente una nascita, una maturazione e una decadenza di stili a partire da un centro di irradiazione; oppure quello marxista di rapporti di produzione e di classi sociali e, ancora, quello idealista, che concepisce l’arte come posta al di fuori dalla storia e che analizza il più piccolo dettaglio a prescindere dal contesto, dalla funzione, dal momento storico. E così la sfida lanciata da Arturo Carlo Quintavalle mira ai pilastri stessi del nostro ragionare di arte e di cultura, di mondi e mentalità. È forse questo il suo merito più grande.

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