Milano - Ormai si erano rilassati, sicuri probabilmente che il peggio fosse passato. Tanto che lunedì, la sera prima del loro arresto, uno di loro, già titolare di un bar in città, aveva inaugurato l’apertura della «sua» gioielleria, in viale Tunisia. Inoltre erano già pronti a dare l’assalto, prima di Natale, a un’altra boutique di preziosi del quadrilatero della moda. Un negozio che, guarda caso, ha accanto uno stabile dove i lavori sono in corso.
I nove «uomini d’oro» che, con un comportamento ineccepibile e vestiti da agenti della Guardia di finanza, lo scorso 24 febbraio avevano rapinato a sorpresa, in una domenica dedicata solo ai clienti più prestigiosi, il centralissimo show room della gioielleria «Damiani» di corso Magenta - entrando dal muro attiguo di un cantiere e scioccando la città e tutto il mondo che ruota intorno ai preziosi per essersi portati via pietre del valore commerciale di 5 milioni di euro - ieri mattina non hanno opposto resistenza alle manette degli investigatori della squadra mobile di Milano e di Palermo. «Una vera e propria operazione chirurgica» l’ha definita senza celare la soddisfazione il dirigente della squadra mobile di Milano Francesco Messina parlando di un’indagine certosina, condotta con metodi antichi, addirittura «d’altri tempi» dopo che i malviventi, messo a segno il colpo (facilitato proprio dall’esistenza di un cantiere accanto alla «Damiani») sembravano essersi volatilizzati nel nulla.
Un’indagine che ha permesso ai poliziotti della sezione Antirapine della Mobile di ricostruire uno per uno i profili di questi rapinatori esperti e tutto il loro passato criminale, incentrato proprio sulle rapine alle più famose gioiellerie milanesi, come Cartier (12 aprile ’92) e Chopard (12 maggio 2001). Alcuni degli elementi che hanno portato gli investigatori sulle loro tracce, infatti, sono stati proprio le pettorine e i cappellini da finanzieri utilizzati nel colpo da Damiani, ma anche in precedenti blitz: una sorta di «firma» degli autori del colpo che ne ha però anche accelerato la cattura.
Iniziate in punta di piedi - e vista l’assenza di una presunta «talpa» all’interno della «Damiani» su cui si era favoleggiato parecchio - le indagini, partite sulla base di una manciata di indizi (solo le immagini delle telecamere esterne allo show room di corso Magenta nei giorni precedenti la rapina che ritraevano più volte il furgone usato nel colpo) hanno poi aperto un vero e proprio mondo alla polizia milanese, costretta a fare la spola tra Milano e la Sicilia per poter osservare da vicino i banditi. La banda dei nove, infatti, non solo è composta perlopiù da palermitani (dettaglio noto sin dall’inizio) ma si tratta di imprenditori di vario genere, attivi in settori come quello della vendita dei condizionatori, titolari di bar o di negozi di abbigliamento. Alcuni residenti sotto la Madonnina o nell’hinterland (solo due sono stati arrestati a Palermo) e in affari addirittura nel campo dei preziosi, come dimostra l’apertura, da parte di Salvatore Scaglione - classe 1960, palermitano ma residente a Milano (nonché l’unico incensurato dei 9) - del negozio di preziosi alla vigilia degli arresti. «Uomini in grado di piazzare la refurtiva, opportunamente modificata senza farle perdere il suo valore, all’estero, ma anche capaci di tenerla ferma fino a quando non fosse giunto il momento più opportuno per rivenderla» ha precisato Messina.
Molti di loro, inoltre, hanno interessi legati ai nuovi rappresentanti di Cosa Nostra, come dimostrano foto di feste e cene. Che li ritraggono, ad esempio, con il latitante Giovanni «Gianni» Nicchi, considerato uomo del capomafia Nino Rotolo e, quindi, nemico giurato del boss Salvatore Lo Piccolo e di suo figlio Sandro.
Altri, invece, si dedicavano ad attività molto differenti. Ad esempio Michele Stagno, 49 anni, è noto per avere lavorato nella compagnia teatrale «Pagliarelli» (nome del noto mandamento-quartiere palermitano) del regista Lollo Franco.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.