Cultura e Spettacoli

Una cena al mare spolpando bestseller

Cronache da spiaggia di fine estate. Dialogo in forma di racconto sui libri di successo e i loro autori arrugginiti...

Un mio amico scrittore l’altra sera ci ha insegnato come si scrive un best seller. Eravamo a cena in un ristorante al mare, dopo la presentazione di un libro. I primi piatti tardavano ad arrivare, così per ingannare il tempo ci siamo messi a discutere di libri e di lettori, spostando con la forchetta sul piatto i resti malinconici degli antipasti: gusci di cozze, carapaci e chele svuotate di astici. Non c’è niente di più triste dei resti di una cosa che è stata bella e buona. Ho detto al mio amico che provavo la stessa sensazione per gli ultimi libri di alcuni scrittori che per me erano stati dei punti di riferimento. Michael Crichton, Clive Cussler, Ken Follett.
«Non pensavo avessi gusti così difficili», ha sorriso il mio amico scrittore. «So che ti piace anche Tom Clancy...».
E qui ha fatto una smorfietta.
«Che c’entra Clancy? Mi piaceva anni fa. Ho letto tre volte Uragano rosso, se proprio vuoi saperlo. Era semplicemente perfetto. Gli ultimi libri invece sono illeggibili. Ecco, se vuoi un esempio di un autore di best seller che ha tradito, Tom Clancy è un buon esempio».
«Ma Clancy ormai è un’industria», ha ribattuto lui.
«In che senso, un’industria?», ha chiesto un’avvenente commensale, moglie di un industriale veneto.
«Nel senso che i libri non li scrive nemmeno lui», ha risposto serafico lo scrittore.
«Ma dai!».
«Ma sì. O non del tutto, almeno. Lui ci mette l’idea, poi c’è uno staff di persone che la sviluppano. Una volta si chiamavano “negri”, ma adesso non è più un termine politically correct. Adesso si usa la definizione americana ghost writer. Almeno finché i fantasmi non protestano».
«Insomma gli autori di best seller lavorano come gli artisti del Rinascimento», ha osservato un altro commensale, rabboccandosi il Traminer nel bicchiere. «Si limitano a tracciare i contorni del quadro, e poi il lavoro di pennello lo fanno i garzoni di bottega?».
«Alcuni autori di best seller», ha precisato lo scrittore.
«Anche Cussler credo faccia qualcosa del genere», ho detto, scuotendo la testa. «Un romanzo su due ormai lo firma a quattro mani con un certo Paul Kemprecos. E fra parentesi sono i romanzi migliori...».
«Ma cos’è che non le è piaciuto, dell’ultimo libro di Crichton?», ha chiesto l’industriale. Aggiungendo poi: «Io non l’ho letto, ma ho visto delle recensioni molto buone».
«Stato di paura? È lento. È noioso. Ma il difetto peggiore è che i personaggi sono puri nomi, come i luoghi. Non “bucano” la pagina. Non hanno spessore. Non ispirano simpatia. E purtroppo in quel libro ce ne sono talmente tanti di personaggi, e tanti nomi di luoghi, che dopo una quarantina di pagine ti sei già perso. Le informazioni scientifiche, poi, sono inserite in modo forzato, rallentano il ritmo, e oltretutto sono spesso sbagliate. Il bello del Crichton di un tempo era proprio il modo in cui riusciva a coniugare perfettamente scienza e avventura. Come Jules Verne».
La moglie dell’industriale mi ha guardato di sottecchi: «Non è che in fondo in fondo c’è un pizzico di invidia?».
«O neanche tanto in fondo», ha aggiunto sottovoce l’industriale.
«Ecco, lo sapevo. Chiunque può parlare male di uno scrittore, tranne un altro scrittore. Altrimenti è un invidioso. Guardi che non è questione di invidia», ho puntualizzato. «Essere invidioso di Crichton o di Follett è assurdo. Loro giocano in un’altra categoria. Si tratta di vedere se i libri che scrivono sono buoni o no, indipendentemente dalle tirature o dalla fama dell’autore. E secondo me gli ultimi libri che hanno scritto non sono per niente buoni».
«Ma ci sarà almeno un autore di best seller che non l’ha deluso?», mi ha chiesto a questo punto un giornalista di un periodico locale.
«Le dico prima chi mi ha deluso. Con tutto il rispetto per i morti, cominciamo dal premiato duo Lapierre e Collins. New York brucia? sembrava una sciatta e insipida rifrittura di un loro libro scritto vent’anni fa, Il quinto cavaliere. Un’operazione commerciale indegna. Eppure Lapierre e Collins erano autori collaudati, quasi un marchio di garanzia. Poi, sempre parlando degli scrittori che stimo di più, non mi ha convinto il finale di Amici assoluti di John le Carré. È appiccicato al libro come un corpo estraneo. È come un’insegna di McDonald’s sul fianco del Partenone».
«E il famoso Codice da Vinci...?».
«Con qualche difetto, vedi il finale tipo “Harmony”, quello è un ottimo romanzo. Non a caso Dan Brown è balzato in vetta alle classifiche: si è inserito in una nicchia ecologica rimasta sguarnita, quella degli scrittori d’azione che sanno ancora costruire una trama. Poi ho apprezzato Notte fatale di Nelson deMille, e La dodicesima carta di Jeffery Deaver. Ma anche in questi casi siamo lontani dai capolavori del passato».
«Ma perché questa crisi generale, secondo lei?», ha chiesto la moglie dell’industriale.
«Non lo so. Posso fare solo delle ipotesi. Immagino siano cose che capitano quando non si scrive più per la necessità di scrivere ma per la necessità di pubblicare. Che sono due cose molto diverse. La crisi secondo me arriva quando uno scrittore è costretto a sfornare un libro all’anno, che l’ispirazione ci sia o non ci sia. Ma poi secondo me c’è il fatto che un bestsellerista internazionale guadagna quasi quanto un calciatore. Entra a far parte del jet set. Ha tempo e soldi per dedicarsi alle cose che l’appassionano veramente. E quindi, a meno che la sua passione principale non sia la scrittura, chi glielo fa fare di chiudersi in casa a pestare per ore la tastiera di un computer o di una macchina da scrivere? Salman Rushdie, con la fatwa che l’aveva costretto a nascondersi, avrebbe potuto produrre dei capolavori. Purtroppo si era trovato una nuova compagna eccezionalmente giovane e bella, e così...».
«Beh», ha sorriso l’amico scrittore «bastava che la ragazza facesse come la protagonista di Misery di Stephen King. Tagliava con l’accetta una gamba a Rushdie e così si assicurava cinque o sei capolavori. Anche Salman l’avrebbe ringraziata, alla fine».
«Penso che più che la gamba avrebbe dovuto amputargli qualcos’altro. Bravo però, che hai tirato in ballo Stephen King...».
«Che fra parentesi scrive meglio dopo che si è fatto mettere sotto da un furgone. Non che voglia suggerirlo come metodo agli altri bestselleristi...».
«Come stavo dicendo, è nel romanzo La metà oscura, mi pare, che King parla proprio di uno scrittore che è rimasto a corto di idee, ma che nel tempo, come uno scoiattolo che fa provviste per l’inverno, ha messo da parte idee, trame, schemi, romanzi scritti a metà. E quando è in crisi creativa li tira fuori, li rifinisce e li mette in commercio. Ho idea che King stesso abbia fatto qualcosa del genere, qualche anno fa. E che non sia certo l’unico. Ora, se uno scrittore dà fondo alle riserve non è certo perché sente l’urgenza creativa di pubblicare. È la sua casa editrice che lo costringe a farlo. Per rispettare i contratti».
«E Follett? Mi pare che Follett sia uno dei suoi autori di culto. Nel bianco le è piaciuto?», ha chiesto la moglie dell’industriale.
«Follett ha un grande mestiere. Forse è l’autore di best seller più bravo che ci sia al momento. Però è un altro i cui metodi di lavoro sono diventati industriali. Ha un’agenzia specializzata che fa le ricerche e gli prepara la documentazione, sia che l’argomento riguardi i laboratori di ricerca biotecnologica o l’occupazione tedesca della Danimarca. A quel punto lo scrittore dovrebbe metterci i personaggi e il plot. Il guaio è che sin dall’inizio, leggendo Nel bianco, si sa a cosa servono i personaggi. Si sa che i bambini ci sono perché verranno tenuti in ostaggio dai cattivi, si sa che due personaggi nei primi capitoli scoprono un nascondiglio perché in un certo momento del romanzo poi lo utilizzeranno. Insomma, si vede il meccanismo sotto pagina. E non è bello».
A quel punto, forse sentendo la parola «meccanismo», lo scrittore ha sorriso. «Comunque non è mica difficile scrivere un best seller», ha detto. «Basta seguire alcune regole».
A quel punto tutte le nove persone sedute a tavola (compreso un bambino che sino ad allora aveva continuamente trafficato col suo GameBoy) hanno drizzato le orecchie. Il mio amico scrittore ha tirato fuori di tasca un’agendina, e ha cominciato a disegnare dei quadrati e delle frecce, come nelle riunioni per cambiare l’organigramma, o per programmare un budget. «Vedi? Qui in questo blocco introduci il personaggio. In questo, nel secondo capitolo, ci metti il colpo di scena secondario. Poi qui...».
Anche i camerieri che (finalmente!) portavano in tavola i primi tendevano l’orecchio per cogliere le istruzioni per scrivere un best seller. Il risotto si era notevolmente intiepidito, quando lo scrittore, con un ultimo elegante svolazzo, ha deposto la penna sul foglio.
«Tutto qui?», ha domandato l’industriale, con la bocca aperta per lo stupore.
«Tutto qui».
«Ma allora ognuno di noi, seguendo queste semplici regole, potrebbe scrivere un best seller?».
«Sì. Beh, poi ci sarebbe un piccolo dettaglio».
«Quale?».
«Bisogna anche saper scrivere».


(1. Continua)

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