Politica

Censis Eppure c’è del bello nella crisi

L’amico responsabile di una collana in un’importante casa editrice mi confessa il suo sconforto: ha appena subìto un cazziatone dall’amministratore delegato (...) (...) per aver chiuso l’anno con un più dieci per cento. «Mi sembra un eccellente risultato», gli dico. «Ma il confronto», spiega, «non si fa guadagno su guadagno, bensì crescita su crescita. Nel 2007 la crescita della mia collana rispetto al 2006 era stata del 12 per cento. Quindi quest’anno siamo cresciuti, ma meno di quanto eravamo cresciuti dodici mesi prima».
Se questa è la logica del mondo in cui viviamo, mi chiedo se non sia opportuno mobilitare, in questo tempo di crisi, gli psichiatri piuttosto che gli economisti. Il segno più non ci basta più: vogliamo un più più. Un collega della redazione economia mi spiega il motivo del crollo in Borsa di Unicredit: quest’anno ha guadagnato 5,2 miliardi di euro. Gli chiedo se per caso non abbia sbagliato nel parlare, e se volesse dire «perso» invece che «guadagnato». «No, ha proprio guadagnato», assicura; «il problema è che nel 2007 l’utile era stato di 7,2 miliardi, quindi c’è un regresso evidente».
A me di «evidente» pare esserci solo la follia di un sistema che forse è andato in crisi proprio perché prevedeva e pretendeva una crescita continua e senza mai intoppi. È come se chi è abituato a bere champagne provasse un senso di schifo la volta che è costretto a passare al prosecco. Parlo naturalmente da uomo della strada, gli economisti sorrideranno pensando ma guarda un po’ che cosa dice questo imbecille. Ma siccome è proprio l’uomo della strada ad essere bombardato da messaggi negativi se non terroristici, credo abbia diritto di parola come ce l’hanno i maghetti delle Borse (i quali anzi forse ne avrebbero un po’ meno, di diritto di parola).
Da uomo della strada, ecco qua due riflessioni. La prima. Forse stiamo esagerando nel piangerci addosso. Ieri il Censis ha paragonato questa crisi a quella «che ha portato alla grande metamorfosi degli anni fra il 1945 e il 1975». Ripenso ai racconti dei miei genitori: nel ’45 l’Italia stava scavando tra i ruderi dei bombardamenti, girava in bicicletta e mangiava la carne a Pasqua e a Natale; negli anni Sessanta si andava al mare in treno, i vecchi con le valigie chiuse con lo spago, i bambini con secchielli e palette, conoscevano a memoria tutti i nomi delle stazioni, appena arrivava quella che precedeva la vista della prima striscia azzurra dopo una curva si creava un clima di eccitazione collettiva. Solo i più benestanti potevano permettersi l’auto, che era una 600 o al massimo una 1100, il tragitto Milano-Alassio o Milano-Spotorno. Oggi il turismo piange miseria e certamente ha le sue ragioni: ma sarebbe interessante un sondaggio su quanti italiani non sono mai andati almeno una volta in un posto a scelta tra le Maldive, i Caraibi e Sharm El Sheikh. Vorrei invitare i catastrofisti anche a una riflessione sulle gite scolastiche: ai nostri tempi si partiva con lo zoo di via Manin e solo al liceo si finiva a Firenze o Venezia; adesso non c’è scuola che non abbia in programma un «viaggio di istruzione» a Barcellona o a Parigi, a Berlino o a Praga. Non credo che un’eventuale riprogrammazione, per il 2009, su Pompei e Volterra sarebbe una tragedia.
Anche passando a conseguenze più drammatiche della crisi, mi pare che un confronto con il periodo 1945-’75 invocato dal Censis sia doveroso. Oggi ci preoccupiamo per i precari: sono tre milioni e mezzo e non sanno se l’anno prossimo sarà rinnovato loro il contratto. Preoccupazione giustissima. Ma prima del 1970, anno di approvazione dello Statuto dei lavoratori, eravamo un intero popolo di precari.
Mi fermo qui per non dare l’impressione di voler minimizzare. La crisi c’è, e soprattutto per le famiglie dai redditi più bassi i tagli sono tanti e dolorosi. Non vorrei però che ci sfuggisse il senso delle proporzioni: anche con la crisi, non abbiamo mai avuto tanta tv, tanti decoder, tanti telefonini, tante automobili. Nella milionaria storia dell’umanità, siamo probabilmente - noi che viviamo nel 2008 qui in Italia, o in Occidente in genere - quelli che se la passano meglio.
Seconda riflessione. Posto che la crisi c’è e che è una brutta cosa, forse vale la pena di recuperare l’antica saggezza che in ogni situazione negativa cercava di cogliere un aspetto positivo. Su La Stampa dell’altro ieri Massimo Gramellini ha scritto un bellissimo elogio dell’influenza. È a letto malato, la gola gli fa male e ha pure la cefalea: però si è accorto che l’appuntamento irrinunciabile era rinunciabilissimo, che la commissione urgente non era poi così urgente, che il mondo va avanti anche senza di lui.
Anche nella crisi, come nell’influenza, può esserci del bello. Confesercenti dice che spenderemo un miliardo in meno rispetto al Natale scorso: peccato per i commercianti, ma forse saremo meno costretti a scervellarci per regali che vengono accolti con un gelido grazie, avevo proprio bisogno di questo. E poi chissà. Forse eviteremo qualche ora di coda aspettando che si liberi un tavolo in pizzeria. Forse l’incertezza sul futuro potrebbe ri-aguzzarci l’ingegno. Forse (addirittura) chi ha di più potrebbe cominciare a dare qualcosa a chi ha di meno. In fondo il Censis l’ha detto: da questa crisi prenderemo la svolta per una nuova rinascita.

Se non sarà solo una rinascita economica, ma anche un po’ del senso della misura e della vita, questa crisi - come l’influenza - ci avrà lasciato qualcosa di bello.

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