Chávez, tappeto rosso per il «tiranno pop» che sfila come un divo

di Michele Anselmi

VeneziaAltro che Brad Pitt e George Clooney. Ci voleva lo sbarco in elicottero di Hugo Chávez, il caudillo pop che si porta sempre bene a sinistra, per movimentare una sonnacchiosa Mostra di Venezia. Un delirio rosso shocking. Proveniente da Mosca con destinazione Tripoli, il presidente venezuelano ha fatto tappa al Lido, ospite personale di Oliver Stone, per accompagnare il documentario «South of the Border» affettuosamente dedicatogli dal regista di «Platoon». Propaganda pura, sotto lo sguardo eccitato dei cronisti e dei fotografi, mentre Müller e Baratta capitalizzavano l'evento inatteso.
In effetti, non capita tutti i giorni (qui nessuno ricorda quando fu l'ultima volta, forse mai) che un capo di Stato straniero solchi il tappeto rosso in qualità di attore protagonista. Ma Chávez lo conoscete: è un mattatore, a suo modo un divo, appunto un caudillo pop. Certo, ha fatto votare una legge, questa sì alquanto ad personam, che gli permette d'essere rieletto all'infinito; ha introdotto la «nuova ley de educacíon» che introduce nelle scuole una sorta di educazione militare alla maniera cubana (poi però dichiara guerra alle armi giocattolo); ha chiuso una trentina di emittenti radiofoniche, partendo dalla popolare RadioCaracasTv, eccetera. Non bastasse, il Paese della rivoluzione bolivariana, che pure naviga in quell'oro nero, cioè il petrolio, venduto generosamente a Russia, Cina, Cuba, Iran, non se la passa troppo bene. Ma nessuno ha voglia di guastare la festa in questo lunedì festivaliero che s'infiamma di internazionalismo proletario, modello sudamericano.
Abito scuro, camicia bianca e cravatta rossa, il tiranno «democratico» sa come farsi amare. Dalla folla dei curiosi assiepata davanti al Palazzo del cinema spunta qualche bandiera venezuelana, poi due o tre vessilli di Rifondazione comunista, uno con l'effigie di Che Guevara, infine un ampio striscione con la scritta «Bienvenido presidente!». Passa un minuto ed eccolo scendere dall'auto presidenziale, circondato da qualche basco rosso e infinite guardie del corpo in grisaglia. Ad attenderlo non c'è Gianni Minà, pare avvistato al Des Bains, l'hotel di «Morte a Venezia» dove Chávez ha preferito scendere: forse lo vedrà dopo, insieme a Paolo Ferrero. Passo svelto, il «compagno presidente» si concede dieci secondi ai cronisti italiani, giusto il tempo di dire che «Stone è un grande lavoratore, un cercatore di storie vere, io ho l'Italia nel cuore, viva l'Italia»; poi, insieme al regista, vestito come lui, si immerge vittorioso nei flash dei fotografi nel rosso della passerella. Sorride, saluta, alza la mano, ringrazia, s'allunga verso le transenne, firma autografi, parla ai supporter italiani del movimento «No dal Molin», parla con la tv venezuelana.
Non un dissenso, non un fischio, non uno slogan contro. Ha capito l'aria che tira, quindi - lui che in patria ogni domenica mattina conduce in tv la maratona «Aló presidente», quattro ore di seguito - si impossessa definitivamente della scena varcando l'ingresso per entrare in Sala Grande. Dove l'accolgono al grido «Viva il presidente della rivoluzione boliveriana», mentre due venezuelani, con tanto di bandiera gialla, blu e rossa, intonano dalla platea l'inno. Dice: «Gloria al popolo coraggioso che si liberò dai ceppi rispettando la virtù e l'onore». Basta? No, Chávez si alza un'ultima volta per ringraziare, avviandosi verso i suoi sostenitori, e solo lo spegnersi delle luci lo riporta al posto d'onore.
«Il capo di una nazione sul tappeto rosso della Mostra è una simpatica alternativa al solito popolo di gente del cinema, della mondanità e di vario arrampicamento», ha scritto Natalia Aspesi su la Repubblica. Simpatica? Come se Chávez fosse il presidente di un normale Paese democratico e non il feroce Caudillo golpista che, nell'atteggiarsi a discendente diretto di Simón Bolívar, sta avviando il suo Paese verso una strana forma di dittatura con la scusa della revolucíon anti-imperialista.
«Patria, socialismo o muerte. Venceremos!», strillano infatti le gigantesche scritte sui palazzi di Caracas. Ma se capita comprate il dvd di «La minaccia», bel documentario di Silvia Luzi e Luca Bellino che Gianni Riotta non volle trasmettere quando dirigeva il Tg1. Ne esce il ritratto attendibile di Chávez e del suo inquietante mix di populismo, castrismo e dispotismo. Dove l'ex parà patito di baseball avverte: «Non farò la fine di Saddam Hussein. Lui non aveva carri armati e bombardieri, noi abbiamo i Sukhoi, gli aerei più moderni del mondo. Ascoltatemi: quando altrove finirà il petrolio, nel Venezuela ce ne sarà ancora molto. Per questo dobbiamo difenderci».
Non a Venezia, però. Dove, omaggiata la città marinara che diede il nome al Venezuela, si propone come leader pacifico, ecumenico, pure cristiano. Al punto da scendere tra il pubblico, a proiezione finita, dopo gli applausi di rito, per intavolare una lezioncina di storia sull'America latina, il colonialismo, la fine degli Incas, la schiavitù e tutto il resto. «La nostra è una grande rivoluzione pacifica e democratica.

Io non sono il diavolo, siamo tutti fratelli», ha rassicurato la platea. Senza dimenticarsi di lanciare un ponte alla Chiesa. «Vorrei incontrare il Papa. Sì, c'è qualche vescovo che mi critica, ma noi vogliamo vivere nel messaggio di Cristo». Vabbè.

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