Che incubo il mondo tra vent’anni ma forse è solo oggi

Stenio Solinas

nostro inviato a Venezia

Tutto si può dire di Children of Men, presentato ieri in concorso, tranne che la gente non farà la fila per vederlo. Il perché è presto detto. È ambientato in un futuro prossimo venturo i cui i grandi problemi del presente sono infine esplosi: i flussi migratori hanno rotto gli argini, la società occidentale del benessere è un pallido ricordo e soltanto uno Stato di polizia, efficiente e brutale, può controllare i primi e garantire la sopravvivenza, sia pure in un solo Paese, del secondo, trasformandosi però in un sistema carcerario dove le sbarre impediscono di entrare ma anche di uscire. L’inquinamento è divenuto endemico e con esso lo sconvolgimento climatico, un susseguirsi di cieli grigi e piogge acide. Le epidemie prosperano e il mondo si ritrova condannato all’estinzione perché divenuto a crescita zero per un’infertilità non indotta ma ormai biologica.
È girato da un regista, Alfonso Cuarón, più volte candidato all’Oscar e a proprio agio con i generi più diversi (Paradiso perduto, Y tu mamá también, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) e quindi una garanzia di spettacolarità, colpi di scena, caratteri ben delineati. L’interpretazione di Clive Owen (Closer), Julianne Moore (Magnolia), Michael Caine (un nome che non ha bisogno di presentazioni) fa fede quanto la recitazione. È basato su un romanzo di P D James, regina del thriller, autrice in grado di dare spessore ai suoi personaggi e di rendere con pochi tocchi un clima e un’epoca, e sceneggiato in maniera convincente da Timothy J. Sexton.
L’ambientazione futuribile, di qui a un quarto di secolo, toglie di scena ogni elemento fantascientifico e ci consegna un domani che è solo un oggi da incubo: violenza metropolitana incontrollata, lotta armata politica, terrorismo interno ed esterno, collasso degli Stati nazionali, scontro sociale fra garantiti e non garantiti, gerontocrazia, certezza della fine.
Infine, è politicamente corretto quanto basta e in fondo anche di più. Il futuro dell’umanità, infatti, è affidato a una donna di colore, l’unica che dopo diciotto anni in cui il mondo non ha più visto un neonato, non esistono più giardini d’infanzia e passeggini, battesimi, comunioni e scuole, darà alla luce, una sorta di miracolo, il Salvatore Laico del genere umano, un piccolo Gesù nero e di sesso femminile, di cui si occuperà, strappandolo a chi ne vuole fare uno strumento di lotta e di rivendicazioni, la Human Project, un’associazione d’intellettuali illuminati che si batte affinché torni il rispetto dei diritti umani e dei deboli.
Per tre quarti del film, il meccanismo scorre perfettamente oleato, poi il «messaggio» prende la mano di Cuarón, la retorica fa il resto e l’apparizione della bambinetta nera al cui passaggio tacciono le armi fa un po’ il paio con le visoni mistiche del World Trade Center di Oliver Stone. La differenza è che qui, prima e dopo, cinematograficamente, succede di tutto, mentre lì sembrava Vermicino con il lieto fine.
«La fantascienza in quanto tale, oppure il futuribile, non mi hanno mai interessato» racconta Cuarón. «Ho accettato di dirigere Children of Men perché mi permetteva di parlare del mondo che conosco fingendo di affrontare il "prossimo futuro". È il nostro presente a venire raccontato: ciò che domani saremo lo si può leggere benissimo in quello che oggi siamo». Uno dei pregi maggiori del film sta proprio in quest’ottica. «Molte delle storie del futuro si rifanno a uno scenario totalitario sullo stile del Grande fratello di Orwell, ma lo trovo un approccio datato. Nel futuro avremo ancora la democrazia nel mondo occidentale, ma assediata e declinata in modo tirannico, la difesa e la salvaguardia dei pochi contro le esigenze dei molti, uno scontro in cui i margini del vivere civile saranno sempre più fragili».
Nel film Clive Owen è Theo, un ex attivista con gli ideali in pezzi. «Mi interessava fare un antieroe, riluttante e stanco, costretto ad agire più dalla caparbietà che un tempo gli era propria che dall’idea di fare la cosa giusta». Il suo punto di riferimento, dopo la morte dell’unico figlio, Dylan, e la fine del matrimonio con Julien (la Moore), che per quella perdita ha radicalizzato il suo impegno per i diritti dei più deboli e ora è ricercata come una pericolosa terrorista, è un vecchio hippy, Jasper (Caine), una sorta di anello di congiunzione, ideologico e ideale fra il XX secolo e il nuovo mondo.
Girato in un’Inghilterra invernale, livida e piovosa, Children of Men ha una sua sobria malinconia venata da sprazzi umoristici.

Nella consapevolezza che non c’è più speranza, ma solo nostalgia, il ricordo di un momento felice del passato, una canzone, un gesto, un gioco, può anche ridarti un sorriso. Non è più sufficiente, però, a ridarti la vita.

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