Era chiaro già prima che oggi i Materazzi, i Gattuso, gli Zambrotta non sono gli stessi del mondiale tedesco. Era chiaro prima, bisognava dirlo prima. Ma siccome viviamo nella nazione dei cuordileone, prima abbiamo preferito sorvolare: come sempre, in attesa degli eventi. Dopo, a cose fatte, a babbo morto, ci viene tutto meglio: anche il coraggio. Dopo, quando si tratta soltanto di infierire, mostriamo i muscoli e diventiamo spietati. Sempre con i più deboli, sempre con i perdenti. In questo caso con Roberto Donadoni, il cittì che non fa nulla per rendersi simpatico, anche perché sostanzialmente non lo è di natura. Adesso che ha straperso con l'Olanda, il plotone di esecuzione è già schierato. Ormai basta un pareggio con la Romania: tre-due-uno-fuoco. Non si può sbagliare il bersaglio, è come sparare sui tacchini.
L'idea affascinante è far fuori l'allenatore e ripristinare Lippi, alla faccia del saggio che ha detto «non bisogna mai tornare dove si è stati felici». Puntiamo a rimettere in piedi tutto come prima, convinti che tutto funzioni come prima. È un'idea. Stupisce se mai che proprio Lippi, uomo all'apparenza molto scaltro, non sia il primo ad escludere il revival, tenendosi stretto il trionfo tedesco come unico e irripetibile. Ma questi in fondo sono affari suoi.
Resta il fatto che Donadoni deve sloggiare. L'occasione è ghiottissima, perché c'è pure una coincidenza imperdibile. In questa esecuzione sommaria c'è persino il risvolto politicamente corretto, che tanto piace a una certa Italia, della rivincita romena, come un supremo atto di giustizia contro la nostra disumana campagna contro i rom.
Allora, ricapitolando: per mille motivi, di bassa macelleria sportiva e di sottile calcolo politico, oggi sarà la giornata nazionale dell'anti-italiano. Si rischia seriamente di avere più italiani contro, rispetto ai banali che tifano ancora pro.
In una situazione simile, doveroso schierarsi. Personalmente, oggi sarò ultrà azzurro. Mai come stavolta. O forse come quando nell'82 mi scamiciavo per i Tardelli, gli Scirea, i Brunoconti e i Paolorossi. Non tiferò Italia per salvare il posto a Donadoni, o perché mi senta particolarmente incantato da Camoranesi e Barzagli (guardando questa nidiata, vado in delirio solo per Pirlo, quando Pirlo è Pirlo). No, non ne farò una questione di calcolo sportivo. Tiferò Italia solo perché così mi spinge istintivamente a tifare questa insopportabile contro-Italia dei conformisti e degli opportunisti, che sa sparare sempre dopo e soltanto sui tacchini, nonché questa contro-Italia degli snob schifiltosi e in malafede, che si attacca persino alla rivincita rom pur di rianimare in qualche modo gli antichi livori anti-governativi, anti-americani, anti-occidentali e anti tutto quanto il resto.
Sincerità per sincerità: mi ha sempre avvilito il nostro modo di esprimere patriottismo solo in caso di vittorie sportive, saltando sui tetti dei tram e dentro le fontane. Ho sempre pensato che sia molto bello e molto giusto esultare per i gol azzurri, ma che sarebbe molto più civile esprimere l'orgoglio nazionale in tutt'altre faccende sociali, dove invece Italia resta malinconicamente una parola estranea. Ho sempre pensato cose così, cadendo anche un po' nel moralismo, sentendomi tante volte persino anti-italiano. Ma stavolta no. In caso di nuovi trionfi, continuerò certo a dissociarmi dal patriottismo etilico e demente dentro le fontane. Ma dopo. Prima, adesso, sto con l'Italia. Nella stessa curva dove stanno gli italiani normali, senza secondi fini, senza puzza sotto al naso.
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