Di trentenni statunitensi con pene d’amore e di lavoro acuite dagli estri di stravaganti genitori gli schermi italiani sono saturi da anni. Eppure chi accusa - a torto - Muccino come regista apologetico di questa generazione molle e inconcludente, tollera quest’invasione di film molesti, ottusi, ripetitivi, pensati per altre longitudini, però regolarmente ammanniti anche qui, grazie a massicce pubblicità dichiarate, ma soprattutto occulte (quelle che passano per informazione o, peggio, per recensione). Con Elizabethtown di Cameron Crowe però si raggiunge il momentaneo apice, perché è stato inserito fuori concorso nella rassegna principale dell'ultima Mostra di Venezia. Elizabethtown è anche l'ennesima storia che si dipana attorno a un’urna funeraria, quella del padre di un giovanissimo dirigente (Orlando Bloom), appena licenziato per aver fallito il lancio di una scarpa sportiva. Deciso a uccidersi (ha senso la vita senza avere il primo milione di dollari a trent’anni?), il giovane fallito rinvia il proposito per assicurare sepoltura al defunto. Finisce però in mezzo alla polemica fra la volontà della madre (Susan Sarandon), californiana, che del padre vuole la cremazione, e gli altri familiari, nel Kentucky, fautori dell’inumazione. Se questa, lugubre, è la parte del film che dovrebbe assicurargli il favore dei critici, quella dell’amore fra il dirigente fallito e una hostess scombinata dovrebbe assicurargli il favore del pubblico. E qui si va ancora oltre nella vacuità e nell’indisponenza.
Crowe - che si crede il Truffaut americano solo perché viene dalla critica di una rivista alla moda - sciorina tutto il già visto del genere sentimentale «non siamo fatti l'uno per l’altra visto che non abbiamo nulla in comune».ELIZABETHTOWN di Cameron Crowe (Usa, 2005), con Orlando Bloom, Kirsten Dunst, 123 minuti
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