(...) Di come il bacino di pubblico andava stabilizzato e soprattutto ampliato, attirando nuovamente spettatori dai due bracci di Levante e di Ponente, per farne un teatro di interesse nazionale e internazionale. Di come l'opera lirica e la musica della tradizione avrebbero conservato il primato nelle programmazioni ma dialogando con altre arti e generi, allargando l'attenzione alle musiche dei popoli, alle ricerche contemporanee, al pop e alla canzone d'autore, alle nuove forme di teatro musicale e di teatrodanza (con la memoria ai fasti perduti di Nervi), alle grandi adunate per la cultura e il pensiero come forme di nuova cittadinanza. Tutto questo, forte della mia esperienza a Milano come Direttore del Settore Spettacolo della capitale della musica e del teatro del Paese, dal caso Arcimboldi - passato da un costo per il Comune di 3 milioni di euro a 1 milione, e da 30 alzate di sipario a ben 200, totalizzando 300 mila spettatori a stagione - al salvataggio dell'Orchestra Verdi, oggi una delle istituzioni musicali più prestigiose della nazione.
Sono stato sorpreso dalla domanda se avessi tollerato l'affiancamento di un manager, a cui ho risposto che il mio profilo professionale si componeva di due anime inscindibili fra loro, quella del progetto culturale e quella della buona pratica di gestione, e che dunque, considerati i bilanci in profondo rosso, accoglievo la responsabilità di dover far da solo, dalla ricerca immediata di nuove risorse alla revisione dei bilanci alla conduzione generale, ricorrendo soltanto, semmai, a un consulente artistico. Ma ho compreso subito che il Sindaco Vincenzi e il consigliere Garrone avevano già in mente l'arrivo di un uomo di fiducia del magnate dei petroli.
Ho pure rammentato agli uditori che un Sovrintendente, in genere, non è un artista, citando il binomio Grassi-Strehler al Piccolo o Fontana-Muti alla Scala, e che mettere un artista alla guida generale sarebbe stato come far dirigere il Louvre a Picasso. Sarebbe stata più corretta la scelta di Pacor quale direttore artistico e musicale, evitando le ipocrisie e le imbarazzanti dichiarazioni che abbiamo letto - «Se la sente di andare avanti?» - dal momento che i disegni erano già fatti, con l'immissione in campo di un uomo della Erg, come se il management nella cultura non fosse prassi ormai consolidata anche in Italia. Certo di lestofanti e incapaci in giro, anche negli enti lirici, ce ne sono, ma la responsabilità è di chi li copta e lascia loro giocare con i soldi e le vite altrui. Senza alcun controllo neppure da parte dei sindacati, quasi sempre a dar battaglia per privilegi del momento dimenticando le prospettive a lungo termine. Ho anche sottolineato, nell'incontro, la mia grande impressione nel leggere i contenuti e i numeri tanto della relazione del commissario Ferrazza tanto dello studio commissionato dal Comune all'avvocato La Rosa e di come quei documenti erano strumenti di partenza perché che la situazione richiedeva ben altri approfondimenti.
È sconcertante che in un paese civile, seppure in declino, una istituzione come il Carlo Felice sia stata lasciata marcire, spinta al capolinea dall'imperizia e dall'irresponsabilità senza che nessuno - consiglieri, revisori dei conti, soci fondatori e istituzioni - abbia svolto il proprio compito, primo fra tutti quello di presidiare l'operato di sovrintendenti e direttori, i cui bilanci e programmi sono stati approvati. Un debito patrimoniale e finanziario così imponente non poteva passare inosservato, tanto più ai sindaci e presidenti della fondazione che si sono succeduti. Ricorrere alla cassa integrazione, la prima volta per una impresa culturale, non è la soluzione a mali cronici e non farà che aggravare la situazione.
*Direttore settore spettacolo
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