O’ presidente Giorgio Napolitano, con strascico di Casini, D’Alema, Fitto e tante autorità, compie stamani al teatro Petruzzelli di Bari un importante rito esorcistico: sbattezza l’università di Bari, posseduta dal demonio perché dedicata ancora a Benito Mussolini, e la ribattezza dedicandola ad Aldo Moro. La cosa curiosa è che il capo dello Stato non mette piede all’ateneo barese e diserta la cerimonia pomeridiana d’intitolazione dell’università per andare ad una mostra dedicata a suo fratello architetto, Massimo Napolitano, che ha progettato alcuni edifici pubblici e privati a Bari. Mirabile esempio di familismo istituzionale. Alla cerimonia farà da madrina la figlia di Moro, Agnese, che scoprirà nell’ateneo barese il ritratto di Moro, coperto da un drappo tricolore, realizzato dal giovane artista Vito Stramaglia.
Dedicare l’ateneo barese a Moro è cosa buona e giusta. Per tanti anni Moro ha insegnato a Bari, qui si è formato culturalmente e politicamente, sin da giovane, quando era fascista. Ma per carità, non era il solo. È storia già nota, a volte imbarazzante, come ad esempio quel che Moro scrisse nel corso universitario del ’43 sullo Stato circa la razza, considerato «elemento costitutivo della nazione». «La razza - scrisse Moro - è l’elemento biologico che creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo delle particolarità dello Stato».
Ma la storia più curiosa che lega Moro a Bari e che Napolitano dovrebbe stamani ricordare, riguarda invece il periodo tra il 1943 e il 1946, quando Moro fondò con altri il settimanale barese La Rassegna, che era accusato di neofascismo e di qualunquismo dalla sinistra. Bari, all’epoca, era un laboratorio nazionale e non solo per via di Radio Bari, del congresso del Cln e il governo Badoglio. A Bari è nato il primo numero dell'Avanti postfascista, diretto da Eugenio Laricchiuta e con collaboratori Nenni e Saragat. A Bari nacque l’organo degli azionisti Italia del popolo e il primo giornale non clandestino del Pci, Civiltà proletaria, diretto da Michele Pellicani, con le firme di Di Vittorio e di Pesenti. In questa Bari pulsante di politica, vide la luce La Rassegna, stampato presso la tipografia della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui scrivevano docenti e giornalisti che oggi si direbbero di centrodestra.
Il Moro che scrive su La Rassegna diffida dei partiti, Dc inclusa, si appella agli apolitici e agli indipendenti, guarda con simpatia all’Uomo qualunque di Giannini e al governo Badoglio e non disdegna di dichiararsi a certe condizioni «uomo di destra». Ad esempio, l’8 maggio del ’45 Moro scrive: «Le destre come consapevolezza storica, come visione realistica della vita umana, come misura vigile contro le tentazioni dell’entusiasmo, non possono e non debbono essere sconfitte». Moro si riferisce ad una destra come temperamento, come mentalità; rispetto ad esse «noi siamo di destra limitatamente a questa serena realistica considerazione». In precedenza, Moro aveva notato la differenza di stile tra destra e sinistra: «Le prime pronte a riconoscere valore all’ideologia avversaria, finché non diventi esclusiva, le seconde portate invece a negarle del tutto, se pure si adattano per ragioni tattiche, al compromesso della convivenza». Quasi proiettando i tratti del proprio carattere nella destra, Moro notava che «la ragione della debolezza delle destre» fosse in quella «timidezza cauta» che non incendiava le masse «galvanizzate dalla irruenza veemente della intransigenza di sinistra». Di destra sociale, si potrebbe aggiungere, perché Moro a differenza dei suoi colleghi più liberali, impiantava i suoi valori di libertà e di realismo nella dottrina sociale cristiana. Del resto, la sua stessa iscrizione alla Dc nel ’46 avvenne su spinta dell’arcivescovo Mimmi di Bari, un conservatore che lo aveva nominato segretario nazionale dei laureati cattolici e poi lo aveva sostenuto alla guida della Domus Mariae per frenare le aperture a sinistra nella Dc di un altro ex fascista dossettiano, Amintore Fanfani. Moro condivise la battaglia de La Rassegna contro il Cln, contro le epurazioni e l’egemonia dei partigiani. Scriveva il 12 marzo del ’45 che «la milizia irregolare» dei partigiani richiamava «spiacevoli ricordi della rivoluzione permanente e del suo presidio armato... noi guardiamo con tanto timore l’esercito dei partigiani... e certe spavalderie da bravi». E temeva soprattutto che le armate partigiane, godendo di perfetta autonomia, «si facciano persino giustizia da sé. E di che giustizia si tratti si può bene immaginare». Per un intellettuale dal linguaggio paludato come Moro, era già un significativo esporsi.
Curiosamente, per colpire queste tesi del giornale moroteo, notava in un suo pamphlet Pinuccio Tatarella, fu coniata per la prima volta l’espressione «neofascismo», oltre che clerico-fascismo, da Civiltà Proletaria e da Italia del popolo. I due giornali di sinistra rinfacciavano a Moro e al gruppo de La Rassegna le loro origini fasciste mal celate e il loro «attendismo carrierista». L’accusa era: fanno gli indipendenti, perché non hanno ancora capito a quale partito convenga oggi affiliarsi. Moro si distaccò dal giornale qualunquista alla fine del ’45 per dedicarsi alla Fuci, in polemica con la dc ciellenista guidata a Bari da Troisi e Calcaterra. Poi le vicende della storia, il realismo politico e forse il cinismo, portarono Moro verso sinistra. Ma conservando l’indole moderata di chi voleva narcotizzare l’avversario e sedare il conflitto. Non aveva fatto i conti con la «giustizia armata» delle «milizie irregolari», i brigatisti rossi... È grottesco pensare che nella sua città natale, Maglie, ci sia la statua di Moro con l'Unità sotto braccio.
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