Ci sono anche produttori che non vogliono soldi pubblici A loro basta il biglietto

RomaHa luogo oggi, nelle austere sale del Collegio Romano, l’O.K. Corral con ostensione di cifre e nomi di finanziati, tra Sandro Bondi, Ministro dei Beni Culturali, e il mondo del cinema. Da tempo non corre buon sangue tra la cineindustria italiana, in odore d’abuso di sovvenzioni statali, dati i minimi riscontri al botteghino e il MiBac, che pigia il pedale dell’autonomia a tavoletta, inimicandosi lo star-system nazionale, riottoso al cambio di passo dettato dalla crisi. Ventiquattr’ore prima dell’atteso confronto-scontro che imprimerà una svolta alla situazione generale, uno degli ultimi produttori storici, rimasti a difendere i generi, finanziando le opere colte con quelle commerciali, ha fatto un macello.
Aurelio De Laurentiis, presidente della Filmauro e del Napoli Calcio, ha terremotato Cinelandia con un distinguo netto. «In Italia i produttori non sono imprenditori, ma prenditori. I film si finanziano con gli spettatori, non aspettando i fondi del governo, o attraverso altri escamotages contabili», questo l’incipit del suo intervento, nel quadro d’un convegno sulla situazione produttiva, presieduto dal direttore di Italia Oggi Luigi Magnaschi. Tale contrarietà ai finanziamenti statali non è nuova per De Laurentiis, originario di Torre del Greco e profondo conoscitore del mercato americano (sua la distribuzione italiana di Paranormal Activity). «Sono contrario ai finanziamenti del governo. Ogni progetto deve mantenersi da solo. In Italia c’è dualismo tra economicità e finanziabilità dei film, né si riesce a venirne fuori», continua il produttore, che con gli incassi dei film di Natale, esecrati dalla critica, finanzia anche altro. D’altronde, il ruolo del produttore, in grado di raggruppare, intorno a un progetto, soldi e idee, è estremamente creativo. «Penso a Steven Spielberg, in India a cercare i fondi per i suoi film, oppure a Luc Besson, che ho sostenuto, distribuendolo ai tempi di Leon», prosegue l’agguerrito tycoon.
Sulla stessa lunghezza d’onda Riccardo Tozzi, già capo della Casa produttrice Cattleya e numero uno dell’Anica, la Confindustria dei cinematografari. Da ex uomo di area Fininvest, Tozzi opera interessanti distinzioni. «Le cifre parlano chiaro: fino al 2004 la percentuale del finanziamento pubblico era superiore al 50 per cento; lo scorso anno, però, esso è sceso al 12 per cento. Dunque, il cinema italiano d’oggi non è più assistito», sottolinea Tozzi. E se Paolo Virzì invita Silvio Berlusconi «a cambiare il Ministro dei Beni Culturali», in polemica con le esternazioni di Bondi, il regista Ferzan Ozpetek tira un colpo al cerchio e uno alla botte. «Bisogna finanziare solo le opere prime. Non ho mai preso una lira dallo Stato, pur esportando i miei film in tutto il mondo».

Per Michele Placido «il nocciolo è capire se lo Stato difenderà i film d’autore».
Ad horas sapremo se il «tax shelter» di Gabriella Carlucci prosegue la sua corsa e con quali criteri saranno finanziati i film della prossima stagione.

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