Ha fatto piazza pulita di Bin Laden, ma anche dei migliori alleati mediorientali. A dieci anni dall’11 settembre l’America fa i conti con il paradosso Barack Obama. Il paradosso di un presidente capace di condannare il paese al destino auguratogli dai peggiori nemici. Il destino di una grande potenza senza più amici, senza più credibilità, senza più autorità. Un gigante dai piedi d’argilla condannato ad affondare nelle sabbie mobili mediorientali. Un gigante costretto in caso di ripresa della minaccia fondamentalista a contare esclusivamente sulle proprie forze. Un gigante dimezzato che rischia di abbassare la testa davanti alla provocazioni iraniane, abbandonare la partita irachena, rinunciare alla sfida afghana.
La comprova arriva da Tripoli. I documenti dei vecchi servizi di sicurezza dimostrano gli stretti legami tra la Cia e Tripoli nella lotta ad Al Qaida. I dossier targati Cia raccontano la cattura a Bangkok nel 2004 di Abdel Hakim Belhaj, un veterano dell’Afghanistan capo di quel Gruppo Combattente considerato la cellula libica di Al Qaida. Oggi, dopo un passaggio a Guantanamo e la galera in Libia, Belhaj è il nuovo capo del consiglio militare di Tripoli. Si è conquistato gradi e verginità espugnando con l’appoggio della Nato il bunker del raìs. Nessuno, tanto meno lui, garantisce la sua conversione. Ma con Barack Obama il mondo gira così. Dieci anni dopo l’11 settembre l’America arruola gli ex luogotenenti di Bin Laden, condanna come reietti dell’umanità chi l’aiutava a combattere il terrorismo. È andata così con Muammar Gheddafi in Libia, con Hosni Mubarak in Egitto, con Ben Ali in Tunisia.
Ma non solo. Dietro questa prima linea di amici sacrificati emerge la terra bruciata di un Medio Oriente abbandonato al proprio destino. Il Libano, strappato ai siriani nel 2005, è stato regalato a Hezbollah senza che Washington muovesse un dito. In Irak, dopo il ritiro dello scorso anno, le milizie sunnite, convinte a suo tempo a rompere i ponti con Al Qaida, si ritrovano senza paga e alla mercè dei gruppi filoiraniani. La risposta è il rigurgito di attentati suicidi che lo scorso 15 agosto ha riportato il Paese all’epoca del terrore e delle stragi. Nello Yemen non va meglio.
Il Paese da cui partì l’attentatore che nel Natale 2009 tentò di far esplodere un aereo in atterraggio a Detroit è nel caos della guerra tribale. Nel nome della primavera araba Obama ha abbandonato al proprio destino il presidente Alì Abdullah Saleh. Al pari di Gheddafi, Mubarak e Ben Alì era la rappresentazione vivente di corruzione e despotismo. Nei dieci difficili anni seguiti all’11 Settembre lui e i suoi omologhi si erano però dimostrati leali all’America e dell’Occidente, avevano offerto un contributo decisivo, seppur interessato, alla guerra al terrorismo. Abbandonandoli a se stessi, condannando i loro Paesi al caos e all’anarchia, Obama non offre un contributo alla causa della democrazia, ma a quei nemici sempre pronti a ricordare che dell’Occidente non ci si deve fidare.
Il tradimento, l’abbandono dei vecchi alleati è percepito dalle piazze islamiche come la miglior conferma di questa teoria. Così chi in Afghanistan spera di dividere i talebani convincendoli a trattare con l’Occidente deve far i conti con il tradimento di un Obama a pronto a scaricare chi credeva in Washington. Chi in Medio Oriente parla a nome dell’Occidente deve far i conti con una Casa Bianca pronta a consegnare ai giudici Mubarak e Gheddafi, ma indifferente alla spietata repressione siriana. Una repressione che ha fatto più di 30mila morti.
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