Il ciabattino e l’indiana suicida «Dovevo capire l’addio di Kaur»

«Non voleva le nozze combinate con quel parente vecchio come me»

nostro inviato a Soliera (Modena)
«Questa storia del treno era da un po’ che le frullava per la testa. Un chiodo fisso. E io ogni volta glielo chiedevo: “Kaur ma che te ne fai del treno, è da mo’ che non c'è più la stazione qui a Soliera. Che ti interessa di sapere quando passa il treno da Soliera? Devi andare a Carpi o a Modena a prendere il treno. Ma se devi partire me lo dici e ti ci porto io. Come al solito”».
La storia, struggente e disperata, di Kaur, la giovane donna indiana che ha scelto di uccidersi per sfuggire ad un matrimonio combinato dai parenti nel suo Paese, ce la racconta Mario. Mario Barbieri, il ciabattino. Nato e cresciuto qui a Soliera, Bassa Modenese, nella palazzina all'incrocio tra via dei Mille e via Mazzini. Mario, il suo migliore amico, anzi, come ripeteva Kaur ai suoi due bimbi, «l'unico vero amico della mamma». È un invisibile filo di solidarietà e di tenerezza quello che legava Mario a Kaur. Trentun anni lei, rimasta vedova di un connazionale che se ne era andato un anno fa dopo una lunga malattia, lasciandola con due figli da tirar grandi. Settant'anni Mario, vedovo anche lui, e proprio della stessa età di quell'altro uomo che Kaur non sopportava: il cognato, cui i parenti della giovane donna, nel Punjab, avevano già deciso che sarebbe dovuta andare in sposa, secondo le ferree regole della tradizione sikh.
Tiene la testa bassa Mario, gli occhi fissi su un paio di sandali malconci attorno ai quali armeggia, coi pensieri rivolti altrove, lontano. A quei quattro e più anni in cui Kaur ha abitato qui, girato l'angolo, al terzo piano della palazzina gialloverde che avrebbe bisogno delle stesse cure di quei sandali che girano e rigirano per le mani del ciabattino di Soliera. «Aveva cominciato a metter dentro la testa in negozio, timidamente, per dirmi ciao, quando entrava in cortile per prender la bicicletta. Sempre in bicicletta, lei. Ci aveva provato a prender la patente, ma le era andata buca. Diceva che non ci riusciva, così un bel giorno era saltata giù e aveva mollato lì come un pesce lesso l'istruttore prima di far l'esame. Da allora ero diventato io il suo autista. Solo che non voleva farsi vedere troppo. Mi chiedeva di aspettarla più avanti, dopo la curva. Centocinquanta metri più avanti. La portavo spesso a Carpi, da un suo conoscente pakistano che ha una specie di bazar. Lei faceva la spesa lì: mezzo chilo di farina, riso e un po' di cianfrusaglie da mangiare, che non capivo bene cosa fossero. Poi qualche cassetta coi film indiani, sai che allegria. Ogni volta che andavamo là a Carpi mi faceva far tardi. Ce ne voleva di pazienza. Anche due o tre ore stavamo là. Ma io aspettavo, stavo lì davanti a loro che parlavano e parlavano, non capivo nulla».
Sorrideva Kaur, quando saliva sulla «Uno» di Mario. Era come se prendesse una boccata di libertà. Era come se uscisse da quel gorgo di pensieri che, da quando era morto il marito, sembravano soffocarla. «E ogni tanto riattaccava con quella storia del treno. Poi, quel giorno, il 22 d'agosto mi ha chiesto di accompagnarla al supermercato, al Famila. Come mai facciamo la spesa qui? Le ho chiesto. Macché spesa, solo una bottiglia, mi ha risposto. Una bottiglia di whisky: 10 euro e 50, me la ricordo come se fosse adesso quella scena. Lei che non aveva mai bevuto un goccio. E io che le dico: ma che ci devi fare con il whisky, Kaur, che cosa c'hai per la testa? E lei: vedrai, vedrai. Così il giorno dopo, la mattina presto, ha fatto quello che ha fatto: si è gettata sui binari mentre passava il primo treno della Modena-Carpi. Le ha tagliato via la testa quel treno, si è fatta ammazzare quella poveretta».
I chiodi, il martello, ma i pensieri sono altrove. La pece del barattolone di Mario si rovescia per terra, qui, nel cortile dove giocavano i due figli di Kaur, la bimba di 13 anni e il maschietto di 12. «Pensi che una volta quella monella della bimba, che ha i capelli lunghissimi e neri, mi ha fatto prendere un bello spavento. Giocavano a nascondino, lei e suo fratello, lei si è infilata in negozio mentre c'era accesa quella macchina là, quella col disco che gira. Chissà come i capelli le sono finiti dentro, ha cominciato a urlare, e meno male che me ne sono accorto subito e sono corso a spegnere la macchina». Ora i bambini di Kaur sono a Carpi, affidati ad una famiglia che si appoggia all'istituto «Mamma Nina», qualcosa di più e di meglio di un orfanotrofio, gestito da suore. Ma il futuro dei due bimbi, lo ha detto il sindaco Davide Baruffi, lo sa tutta Soliera, è incertissimo, «visto che i parenti hanno tutto il diritto di riportarli in India, dove sono nati, e il Comune anche se giocherà tutte le carte, ha ben poche chance di vittoria».
«Eppure - ricorda Mario Barbieri - Kaur l'ha scritto in quel biglietto, quello che ha lasciato per spiegare perché si è uccisa, che i suoi figli vuole che crescano qui, che diventino italiani. Ci sarà pure un mezzo per tenerli qui». A loro Kaur non ha fatto mai mancare niente. Guadagnava 1200 euro al mese nella fabbrica dei filtri per auto. «Arrivava sempre col fiatone allo stipendio. E ogni tanto - ammette Mario - mi chiedeva cento-duecento euro. Non di più. E appena prendeva lo stipendio veniva a restituirmeli. Sempre». La testa bassa, i sandali che girano e rigirano per le mani.

«Un tempo a Kaur piaceva andare in bicicletta, giù, lungo la via Serrasina, in mezzo ai campi, tra le vigne da una parte e i filari di pere dall'altra. Ma poi, negli ultimi mesi era cambiata, si era intristita. Se solo l'avessi vista, quella mattina...».

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