A Parigi Nicholas Sarkozy impalmava la bella Carla, a N’Djamena il vecchio alleato della Francia lottava per la vita. Il regno di Idriss Deby, il presidente soldato, sembra all’epilogo. N’Djamena, la sua capitale è dall’alba di ieri nelle mani dei ribelli. Lui sopravvive assediato nel palazzo presidenziale, difeso soltanto da una linea di carri armati e da pochi reparti di fedelissimi. Lì attorno s’attesta l’ultima, disperata resistenza, s’accendono i combattimenti più furiosi segnalati da neri pinnacoli di fumo. Qualcuno come Cherif Mahamat Zene, ambasciatore del Ciad ad Addis Abeba, scommette ancora su Deby, racconta di avergli parlato al telefono, garantisce che il presidente controlla la situazione dal proprio palazzo. Versione confermata in parte dal colonnello francese Thiderru Burkhard secondo cui le truppe lealiste stanno riguadagnando terreno e rompendo l’assedio al palazzo. Secondo i ribelli, invece, tutto sarà già finito entro stamattina e il Presidente sarà o prigioniero, o morto, o in fuga verso Parigi. In tutto questo i circa 1200 soldati francesi della missione Sparviero, presente nel Paese sin dal 1986, sembrano non muovere un dito. Parigi, in pessimi rapporti con Deby da qualche anno, conta probabilmente di utilizzarli soltanto per organizzare l’eventuale evacuazione dei francesi e degli altri occidentali, tra cui duecento italiani, bloccati nella capitale.
Comunque vada c’è poco da stare allegri. La fine del 55enne tiranno Idriss Deby, il presidente che sognava di governare a vita, rischia di passare alla storia come l’evento sbagliato nel momento sbagliato. La fulminea avanzata di 300 jeep e circa 2500 guerriglieri capaci in solo sei giorni di superare il confine del Sudan, sgominare le difese governative, divorare 700 chilometri di deserto ed entrare nella capitale non è un trionfo della democrazia. È piuttosto uno scacco alla Francia e all’Europa, il trionfo di quel regime sudanese che in Darfur manovra le milizie responsabili di massacri e deportazioni. Da oggi l’inferno del Darfur non ha più un retroterra per i suoi profughi, per le organizzazioni umanitarie, per le forze di pace africane ed europee incaricate, sulla carta, di difendere le minoranze perseguitate.
L’Unione delle Forze democratiche, la coalizione di gruppi ribelli unificatisi al solo scopo di far cadere Deby rappresenta il capolavoro politico militare di Khartum. In quella coalizione convivono il suo leader Mahamat Nour Abdelkarim, un ex diplomatico uscito dalle file governative 16 mesi fa, e la cosiddetta Unione delle Forze per il Cambiamento di Timam Erdimi, il nipote del presidente in conflitto con lo zio dopo la perdita del monopolio sul commercio del cotone. Ma l’essenza della coalizione è la sua compagine militare. Senza i fuoristrada, le armi e gli equipaggiamenti elargiti dal Sudan l’ibrida alleanza non sarebbe certo arrivata a N’Djamena.
Lo scellerato Idriss Deby ha offerto non pochi punti al nemico. Dimenticando l’aiuto offertogli da Parigi quando, nel 1990, si sbarazzò del predecessore Hissene Habre, l’ex capo di stato maggiore Deby ha rotto gli accordi sullo sfruttamento del petrolio garantiti alle compagnie francesi. Poi, mentre la rivista Forbes lo inseriva tra i dieci tiranni più corrotti del pianeta, emendava la Costituzione, cancellava con un referendum farsa il limite massimo di due presidenze e si faceva eleggere per la terza volta. Ma la colpa più grave è non aver rispettato neppure il suo stesso clan, quegli Zaghawa a cui aveva affidato la ricchezza e le armi del Paese. Uno sgarro pagato con le defezioni registrate ai vertici dell’esercito durante l’ultima decisiva settimana di combattimenti. Per contenere quel disfacimento, venerdì il presidente generale Deby, da sempre famoso per il suo coraggio, non ha esitato a raggiungere la prima linea di Massaguete 50 chilometri a nord est della capitale.
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