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Cina, morsa su telefonini e pc

Il regime comunista vuole vietare l’export di minerali indispensabili per realizzare tv al plasma, iPod e Blackberry Sarebbe un colpo durissimo all’industria dell’alta tecnologia occidentale: Pechino è l’unico produttore mondiale

Cina, morsa su telefonini e pc

I cinesi non pubblicizzano mai le proprie mosse e non solo perché controllano i media. Agiscono nell’ombra, con discrezione, applicando i principi del più grande stratega di tutti i tempi, Sun Tzu, che era cinese, come loro, e insegnava che le guerre si vincono senza combattere, perché i veri saggi agiscono per tempo accumulando un vantaggio strategico incolmabile, dissimulando le proprie. Discreti, felpati, possibilmente invisibili di fronte al rivale, che non deve insospettirsi.

Provate a chiedere a un grande cinese se il suo Paese nutre mire imperiali e se ambisce a spodestare gli Usa nel ruolo di prima superpotenza mondiale. Risponderà di no, perché la storia delle antiche dinastie del colosso asiatico dimostra come, alla lunga, qualunque impero sia foriero di sventure. E non mentirà. Oggi la Cina non vuole sfidare l’egemonia americana. Preferisce assumere posizioni dominanti in alcuni settori chiave e prepararsi a portare colpi terribili all’Occidente.

Ad esempio vietando l’esportazione di minerali rari dai nomi curiosi come il tulio, il lutrezio, il disprosio, il terbio, che per anni sono stati considerati marginali, al pari dell’euoropio, del neodimio, dell’itrio, del lantanio. Ma senza di loro non potremmo far girare l’hard disk dei computer, né i Blackberry, né gli Ipod, né potremmo guardare le tv al plasma. E avremmo qualche difficoltà a far partire le automobili ibride, visto che una Toyota Prius contiene ben 11 chili di neodimio.
Il fatto è che la Cina è diventata praticamente l’unico produttore mondiale e intende vietare l’esportazione di alcuni di questi metalli preziosi e introdurre quote limitate per gli altri. La svolta, annunciata dal ministero dell’Industria e dell’Innovazione tecnologica, attende solo il via libera del Consiglio di Stato per diventare operativa. Uno schiaffo. In violazione delle leggi internazionali del libero scambio? Senza dubbio. Ma a quale scopo? Ottenere guadagni esorbitanti facendo salire alle stelle le quotazioni? Forse. Ricattare il mondo? Non lo si può escludere, ma non sembrano essere queste le motivazioni principali, che invece sarebbero strettamente legate alla trasformazione dell’economia cinese.

È come se Pechino dicesse al mondo: fino ad oggi siamo cresciuti soprattutto grazie alle esportazioni, ma ora il motore sta diventando interno, con un mercato da un miliardo e 400 milioni di consumatori. E siccome la disponibilità di quei metalli è limitata dobbiamo riservarla alla nostra industria. E il mondo si arrangi cercando rifornimenti altrove.

Già, ma dove? Oggi il 95% di questi metalli viene estratto in Cina, per lo più nella Mongolia interna. Fino a qualche anno fa esistevano giacimenti anche negli Stati Uniti, in Australia e in Sud Africa, ma sono finiti fuori mercato a causa della concorrenza dei cinesi, che estraevano a prezzi molto più bassi. Come prescrive Sun Tzu, Pechino ha vinto molto prima che i rivali si accorgessero delle sue mosse e sfruttando le regole del libero mercato imposte proprio dagli occidentali, che ora si trovano in grave imbarazzo, anche perché non sembrano ancora consapevoli della trappola in cui sono finiti.
Solo il Giappone, da tempo, sta accumulando scorte ingenti per fronteggiare, almeno temporaneamente, i probabili tagli cinesi. L’America tace, l’Europa dorme e quando si sveglieranno sarà tardi per rimediare.

Sì, riattivare le miniere dismesse è possibile, ma sostenendo investimenti ingenti e in tempi che non saranno brevi: fino al 2015 la maggior parte non sarà operativa. E comunque la produzione non sarà tale da coprire il fabbisogno, che con l’avvento delle tecnologie verdi rischia di aumentare in modo esponenziale.

E quello dei metalli preziosi non è l’unico settore in cui i cinesi stanno assumendo vantaggi considerevoli. Negli ultimi otto anni mentre gli Usa si dissanguavano per finanziare la guerra in Irak, decisa impulsivamente, e lasciavano aperta quella in Afghanistan, i cinesi accentuavano la penetrazione in Africa, nei Paesi ricchi di petrolio e di materie prime, ancora una volta dissimulando le proprie intenzioni. L’interscambio tra il colosso asiatico e i partner africani è cresciuto del mille per cento in dieci anni, naturalmente in nome dell’amicizia fra i popoli e dell’aiuto allo sviluppo. Pechino ha stipulato accordi con grossi produttori di petrolio come la Nigeria, l’Angola e il Sudan; nell’America latina strizza l’occhio al Venezuela di Chavez; nel Golfo corteggia discretamente l’Arabia saudita e protegge l’Iran dalle pressioni americane. La Cina ha il passo lungo. E l’Occidente non riesce a contrastarla.

Non ci sta nemmeno provando.

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