La Cina paralizzata da 120mila Veline

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Ora sì che è uno scambio alla pari: loro ci invadono con le magliette taroccate però alla sera si abbuffano di reality show, che ormai è l’unica griffe occidentale a funzionare davvero. Intanto però prendete fiato: in Cina il programma Supergirl incolla duecentodieci milioni di spettatori tutti in una volta (...)

(...) davanti alla tivù. Nemmeno Orwell era stato così pessimista: solo in una regione, quella cantonese di Guangzhou, a papparsi questa sorta di Saranno famosi sono ventidue milioni per volta. Insomma la Cina è vicina ma i reality sono alle stelle e Supergirl è il Superbowl dei cinesi. D’altronde l’idea o meglio il format è lo stesso che ha già dato soddisfazione a tanti, da Andy Warhol a John De Mol: un quarto d’ora di fama non si nega a nessuno, tanto più se costa poco ingaggiarlo.
Il relativismo televisivo, più ancora del capitalismo acerbo e spietato, è la risposta a decenni di dogmi ideologici, blindati, immobili, inutili. Cioè: per ora appariamo, poi vedremo come essere. Certo, in Cina si fanno le cose in grande. Per questa versione di American idol, o per dirla a modo nostro, di dilettanti allo sbaraglio, il casting in tre città (Hangzhou, Zhengzhou e Changsha) ha raccolto centoventimila aspiranti veline, tutte mostruosamente attirate dalla voglia di apparire, di scappare dalle topaie dove abitano, di dire tiè al vicino di casa che ancora vive col suo libretto rosso sul tavolo.
Nella quarta città, a Chengdu nella Cina centroccidentale cioè ai confini del mondo, la coda ai cancelli dello studio era lunga un chilometro. Un chilometro per seimila sognatrici. «Sono felice» ha detto Xiao Jia, con le occhiaie perché era stata in fila tutta la notte come fecero i suoi nonni quando Mao Tse Dong eliminò Chang Kai Shek dalla politica e il pane dai tavoli. Xiao è una delle duecento ragazze che nelle prossime puntate entreranno negli studi della tivù dell’Hunan, dove un plotone di programmatori s’è inventato questa corrida miliardaria di cercatori di fama. E si giocherà il suo quarto d’ora per diventare come Zhang Hanyun, la «ragazza normale» che l’anno scorso ha vinto la prima edizione di Supergirl e ora ha il volto stampato sulle etichette del Mongolian cow sour, lo yogurt che va per la maggiore e che, tra l’altro, è lo sponsor principale del programma.
In tutta la Cina non si fa poi molta fatica a trovare la faccia di Zhang in tivù. Su Mtv Mandharin, che sta per diventare la seconda Mtv del mondo dopo quella Usa, passa ogni mezz’ora, facendo una sensazionale pubblicità a Supergirl. Che peraltro non ne ha molto bisogno.
A fare da spot a questo reality show è la fame di fama. La voglia di apparire. E di apparire purchessia. Amy, che è una studentessa di violino, a vent’anni ha mollato l’Austria (dove studiava) per correre alle selezioni di Hangzhou. Idem per Lili, che oltretutto ha speso migliaia di yuan in vestiti, viaggi e cosmetici per «stare sul palco davanti a un grande pubblico». A far che cosa, non importa.
Nei quattro studi di Supergirl, ciascuno in una città diversa e così grossi da contenere un migliaio di spettatori, le ragazze sfilano, vengono prese in giro dai conduttori e si arrabattano davanti alle giurie mentre alle loro spalle un gigantesco schermo trasmette dei ballerini senza volto (neanche Ionesco ci avrebbe pensato).

D’altronde quello che conta sono pur sempre gli altri monitor, quelli sui quali appaiono i logo e i simboli delle decine di sponsor che (anche loro) sono in fila per entrare nel cast e apparire almeno un istante. E figurarsi la frenesia per la puntata finale, a ottobre, che incoronerà la nuova Supergirl, pronta a diventare l’etichetta di uno yogurt e di un modo di vivere che i cinesi ancora non sanno affrontare.

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