Che due conducenti di bus abbiano trascorso le loro vacanze estive, 31 giorni filati, alla guida di un pullman, già non è mica tanto normale. Che altri 30 stravaganti - avvocati, ingegneri, insegnanti, tecnici, operai, studenti, anche un pensionato e un disoccupato - reclutati da Matteo Guidolin, un impiegato, siano saliti sul medesimo automezzo in partenza da Riese Pio X, provincia di Treviso, con destinazione Pechino, Cina, accettando di attraversare 12 nazioni in 20 tappe, per un totale di 14.007 chilometri, alla massacrante media di 451 al giorno, potrebbe rivestire un qualche interesse per la psichiatria. Ma se la comitiva fa parte dell’associazione culturale Ostrega! presieduta dal medesimo Guidolin, il viaggetto è stato ribattezzato Ostrega in tour e alla fine ne escono due mostre (aperte alla Biblioteca di Riese Pio X, fino al 6 gennaio, e agli Spazi Bomben di Treviso, fino al 17) e uno splendido volume fotografico di grande formato, dal titolo Ostrega! Seta, from North-East to East, che gioca sull’anagramma tra fibra tessile e punti cardinali, cominci a capire meglio lo scopo della missione sulla Via della seta, dal Veneto fino all’antica Cambaluc, capitale del Catai, sulle orme di Marco Polo, lungo l’itinerario tracciato dal viaggiatore veneziano nel Milione.
Poi guardi l’immagine sulla copertina del libro, raffigurante un cinese pensoso che sta beatamente defecando in una latrina all’aperto nella provincia del Gansu, sfogli le 182 pagine, e ti accorgi che non c’entrano solo l’antropologia e la geografia, gli usi e i costumi, la politica e la religione, l’amore e l’amicizia, la cucina e lo svago: c’entra soprattutto la veneticità, una predisposizione dello spirito che, per un misterioso effetto di birifrangenza, fa dei sudditi della Serenissima i più chiusi e al tempo stesso i più aperti a quell’inevitabile processo storico definito dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, «meticciato di civiltà».
Tornati sani e salvi alle loro quotidiane occupazioni (con volo da Pechino) gli spossati ostrega-gitanti. Misteriosamente disperso nel Mar della Cina, invece, il glorioso ostrega-bus, un Mercedes gran turismo del 1981, modificato per ospitare un letto e tre postazioni Internet alimentate da pannelli solari sul tetto: «Abbiamo aggiornato la nostra pagina su Facebook in collegamento wireless dalla frontiera Turchia-Iran», informa Guidolin. «Se vado al valico di Fernetti con la Slovenia non mi prende manco il cellulare». Prescelto per la scarsità di componenti elettroniche e per la facilità di reperimento d’eventuali ricambi meccanici lungo l’impervio tragitto, il bus sarà a Riese Pio X a fine gennaio, se tutto va bene. «Doveva partire da Tianjin, invece dopo due mesi di estenuanti trattative siamo riusciti a imbarcarlo il 16 dicembre su un cargo che è salpato da Shanghai e ora dovrebbe trovarsi nelle Filippine».
Nonostante le sue conoscenze - laurea in lingue e civiltà orientali conseguita con 110 a Ca’ Foscari, cinese scritto e parlato alla perfezione, impiego in un’azienda orafa vicentina che gli fa trascorrere almeno un terzo dell’anno in giro per il mondo - Guidolin ha dovuto battagliare due anni, e ancora non ha finito, per realizzare il sogno dell’Ostrega in tour e districare la matassa burocratica che all’apparenza lo impediva, procurando per tutti i partecipanti i visti obbligatori in cinque Stati e per il pullman i permessi necessari all’ingresso in Cina, «ben quattro, dei ministeri del Turismo, dei Trasporti e della Pubblica sicurezza, nonché quello della polizia, più una cospicua cauzione in dollari, che ti restituiscono solo quando riparti: temono che il veicolo venga venduto o abbandonato». Ed era solo un assaggio delle difficoltà che avrebbe incontrato alle frontiere, per esempio nei paraggi di Bukhara, fra Iran e Turkmenistan. Dove, per colpa di un numero di passaporto trascritto male sul visto, tre partecipanti sono stati respinti e hanno dovuto tornare a Mashad in taxi, poi a Teheran in aereo, quindi affrontare tre voli da Mashad a Teheran, da Teheran a Istanbul, da Istanbul a Taskent e un viaggio in auto da Taskent a Samarcanda per potersi ricongiungere ai compagni bypassando il Turkmenistan.
Guidolin ha 30 anni. Abita a Vallà, frazione di Riese Pio X, col padre Luigi, operaio in pensione, e la madre Mirella, casalinga, ma presto andrà a vivere con la fidanzata Paola, ingegnere gestionale alla Coca-Cola. A fargli balenare l’idea dell’Ostrega in tour sono stati i cofondatori dell’associazione, Francesco Quarto, avvocato, e Andrea Berno, autista. In volo verso New York, i due si sono messi a fantasticare sul planisfero pubblicato nella rivista di bordo della compagnia aerea: «Sarebbe bello un viaggio in pullman da qui a qui». Al ritorno ne hanno parlato con Guidolin. Detto fatto.
La sua è una famiglia di giramondo?
«Per niente. Gli unici viaggi all’estero che si ricordino restano quelli dei nonni, sia paterno che materno, verso la guerra: Albania. Quanto a me, per anni il percorso più rocambolesco è stato Castelfranco Veneto-Venezia su un treno delle ferrovie italiane».
Perché andare in Cina col bus?
«Per promuovere e preservare la cultura veneta, aprendosi ad altre culture».
Preservare non vuol dire chiudere?
«Sì e no. Siamo legati alle nostre tradizioni. Ma le tradizioni cambiano».
Sopa coada e nidi di rondine non vanno molto d’accordo.
«Anche il mais l’ha portato Cristoforo Colombo dall’America. Eppure il Veneto per mezzo millennio è stato la patria della polenta, fino quasi a morire di pellagra. Ancora ci chiamano polentoni».
Siete stati davvero fedeli all’itinerario che condusse Marco Polo alla corte di Khubilai Khan?
«Sì. Tranne che lui partiva da Antiochia, al confine fra Turchia e Siria, e passava per Kashgar. A noi non è stato possibile perché fra Kirghizistan e Cina c’è di mezzo il passo del Torugart, 3.752 metri, strada sconsigliabile. Il massimo dislivello che abbiamo affrontato è stato di 2.973 metri».
Che cos’è rimasto della Via della seta?
«È rimasta la Via della sete. Molto deserto, poca acqua. Un problema che noi non avevamo, visto che si andava a vino: 70 bottiglie di Prosecco, altre 80 fra Cabernet, Raboso e Valpolicella, 60 litri di birra e 5 di grappa. Prima d’arrivare nei Paesi islamici, avevamo già fatto fuori tutto, compresi i giacomini del salumificio De Stefani. In Iran il consumo di alcolici e maiale è punito con 80 frustate».
E in Cina che cos’è rimasto del maoismo?
«La devastazione dei monumenti. La “rivoluzione culturale” ha distrutto tutto. Le Grotte di Mogao, classificate come patrimonio dell’umanità, sono state chiuse con pensiline di cemento armato e porte metalliche usate di solito per i container. Stiamo parlando di 492 templi scavati nella roccia, contenenti affreschi dal II al XV secolo».
Momenti di paura durante il viaggio?
«Cinque di noi sono stati fermati da poliziotti iraniani in borghese davanti al bazar di Teheran perché avevano la macchina fotografica al collo. Poi abbiamo saputo che dall’altra parte della strada si trova il tribunale che stava processando un occidentale per spionaggio. Erano scoppiati da poco i tumulti per i brogli elettorali nella rielezione del presidente Ahmadinejad. Invece a Zharkent, nel Kazakistan, ci siamo ritrovati nostro malgrado coinvolti in un banchetto nuziale che si svolgeva nell’hotel dove alloggiavamo. Quando l’alcol ha raggiunto il livello di guardia, i parenti degli sposi hanno cominciato a innervosirsi parecchio perché gli invitati guardavano noi che giocavamo a pallone all’esterno invece della coppia kazaka all’interno».
Quanto avete speso di gasolio?
«Poco. In Iran un pieno di 400 litri ci è costato l’equivalente di 5 euro in riyal».
Età media dei partecipanti al tour?
«Bassa. A parte uno di 62 anni».
È stato difficile metterli insieme?
«Non piace questo modo di viaggiare. È stato difficile far capire che lo scopo del viaggio era il viaggio in sé. Fuori dal villaggio vacanze, gli italiani si sentono perduti. Però cinque veneti che vivono stabilmente in Cina per lavoro, Paolo Marotta, Fabio Pigatto, Filippo Rocco e Damiano Salvego, ci hanno raggiunto a Riese Pio X da Shanghai, Shenzen, Hong Kong e Canton e sono tornati a Pechino con noi in pullman».
Cinque kamikaze.
«Ai nostri giorni arrivare in qualsiasi luogo è questione di istanti. Ma oltre al jet lag fisico esiste anche il jet lag culturale, che significa appunto perdersi tutto ciò che c’è sul percorso. La gente non viaggia più: fa turismo. Le agenzie hanno suddiviso il pianeta in itinerari, soggiorni, club accuratamente preservati da qualsiasi prossimità sociale indesiderata. La natura è diventata prodotto, il mondo finzione. I viaggiatori sono stati trasformati in spettatori e gli autoctoni in spettacolo».
Il più matto della compagnia?
«Andrea Piccolo, curatore della grafica del libro e del sito. Faceva il bucato camminando sui panni nelle vasche da bagno degli alberghi».
Avete rifiutato qualcuno?
«Luca Baggio, consigliere regionale della Lega, voleva unirsi a noi. Ma abbiamo preferito che non s’intrufolassero i politici. Però siamo stati sponsorizzati un po’ da tutti: Parlamento europeo, Presidenza del Consiglio, Regione, le sette Province venete e 14 Comuni».
Che cosa avete trovato di genuino lungo il percorso?
«La generosità. La gente ti vede fermo per strada con una cartina in mano, s’avvicina, ti chiede da dove vieni, si offre di aiutarti».
Avete incontrato popolazioni che non avevano mai accolto un italiano?
«Quasi. Tre cose ci hanno accompagnato dall’inizio alla fine del viaggio: l’acacia, gadia in veneto, tanto da farci coniare il proverbio “dove c’è gadia, c’è casa”, l’anguria e il calcio tricolore. Ho spesso usato come lasciapassare la mia forte somiglianza col centrocampista Gattuso».
Ha idea del perché tutti i bar del Veneto vengono comprati dai cinesi?
«Hanno molta liquidità e quindi possono rilevare le licenze sopravvalutandole. La leggenda urbana vuole che il flusso di denaro derivi dall’immigrazione clandestina. È un fatto che i cinesi hanno sempre colonizzato i Paesi ospitanti partendo dagli strati più bassi della società. Prenda la Malesia: vi si sono introdotti come manovali, poi hanno cominciato a rilevare esercizi commerciali e aziende di servizi, oggi fanno girare l’intera economia. Hanno questa forte vocazione a ricostruire i clan familiari. In Veneto quasi tutti i cinesi vengono dalle province dello Zhejiang e del Fujian. Migrano per cognome: a Milano la maggioranza si chiama Xu, dalle nostre parti i più presenti sono i Li, gli Zhang e gli Yang».
Anche i barbieri in Veneto ormai sono tutti cinesi.
«Cinesi o di Siviglia».
Che cosa significa per lei essere veneto?
«Avere forti radici nella terra, nella civiltà contadina».
Potrebbe abitare in un’altra regione?
«Sì, ma con riserva».
Di solito dove va in vacanza?
«In posti nuovi».
A Rosolina Mare no, eh.
«No, anche se ho una morosa che vivrebbe in spiaggia. È in corso una guerra non dichiarata fra me e il vicepresidente di Ostrega!, Quarto, su chi ha visitato più nazioni: io sono arrivato a 37, lui a 53».
L’ultimo dell’anno dove l’ha passato?
«A Padova. Canto nel gruppo pop Los Massadores, versione ispanica dei norcini che “fanno su” i maiali. Avevamo cominciato con i matrimoni. Poi a giugno abbiamo registrato per beneficenza Joani, versione nostrana di Domani, il brano degli Artisti uniti per l’Abruzzo terremotato. Anche a Vallà c’è stata una calamità naturale: una tromba d’aria che il 6 giugno ha provocato danni per 30 milioni. Joani ha avuto un successo inaspettato: 150.000 contatti su Youtube».
Ieri ubriaconi, servette, analfabeti e bigotti; oggi leghisti, sfruttatori di clandestini e razzisti. Da dove nascono questi pregiudizi sui veneti, secondo lei?
«Dall’arricchimento veloce, che non s’è accompagnato a un simmetrico arricchimento culturale. Eravamo il Sud del Nord. Ora il veneto è pieno di sé perché ce l’ha fatta a riscattarsi con le proprie mani».
Anche un popolo di bestemmiatori. Strano, il Nordest era la sacrestia d’Italia.
«Proprio per questo. Si inveisce contro qualcosa che viene percepito come un potere centrale: la Chiesa di Roma».
Ostrega deriva da ostrica, variante eufemistica di ostia, un mezzo moccolo. E siamo nel paese natale di San Pio X.
«Abbiamo scelto l’interiezione perché fotografa bene questa ambivalenza».
E perché il veneto sarebbe chiuso verso lo straniero?
«Perché teme che venga qui a intaccargli il benessere conseguito nel giro di due generazioni dopo millenni di fame. Ha paura di tornare a poenta e deo pi longo, polenta e dito più lungo: ci si mangiava quello, non c’era altro».
Quale pensa che sia la miglior dote dei veneti?
«La tenacia».
E il peggior difetto?
«L’arroganza».
La frase che li rappresenta meglio?
«È un epitaffio: “Schei e paura, mai vui”. Soldi e paura, mai avuti».
(479. Continua)
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