Cinema Cielo, la solitudine e lo scandalo

Gli spettatori vengono risucchiati fra le poltroncine sgangherate della vecchia sala a «luci rosse»

Sergio Rame

La solitudine è uno scandalo. Nulla di più impronunciabile, nulla di più inaccettabile. E tra le poltrone scomode del Cinema Cielo è passata, per diversi anni, un'umanità in cerca di calore, emozioni e vuote passioni. In questi giorni, Danio Manfredini porterà, sul palcoscenico del Teatro dell'Elfo, tutte queste solitudini rumorose, infrante dall'impossibilità di poter raggiungere la normalità.
Forse a qualcuno potrebbe anche tornare in mente (almeno per sentito dire). Vaghi ricordi. Bisognerebbe fare uno sforzo mnemonico e tornare ad almeno venticinque anni fa, quando le sale cinematografiche erano soprannominate «a luci rosse». In verità qualcuna si trova ancora per le vie delle nostre città a testimonianza di un microcosmo in estinzione fatto degli ultimi frequentatori di luoghi dove la proiezione del film porno era soprattutto un pretesto.
Cinema Cielo era una sala milanese. Si trovava in viale Premuda. Ora è chiuso. A questo cinema, Danio Manfredini ha dedicato uno spettacolo che fa nuovamente vivere, sul palcoscenico del Teatro dell'Elfo, i rapporti vissuti tra le poltroncine sgangherate e i corridoi, le tende di velluto e i bagni maleodoranti. Sul sipario chiuso è proiettata la foto dell'esterno del cinema milanese. Il reale è palpabile: quasi come dal vero, all'apertura della tenda si viene direttamente catapultati su una di quelle voyeuristiche poltroncine rosse.
Platea fittizia contro platea vera. Il film, proiettato sullo schermo invisibile, è Nostra Signora dei Fiori dello scrittore parigino Jean Genet, storia autobiografica, ambientata negli anni Quaranta. La vicenda narrata è quella di Louis che, poi, è Divine. O meglio: così viene chiamato dai suoi innumerevoli amanti. Una languida storia - raccontata unicamente attraverso il sonoro, senza nessuna immagine - di travestitismo e prostituzione, di omicidi e di vita in carcere.
Il lavoro di Manfredini non rientra nei canoni usuali del drammaturgo che scrive e poi rappresenta, è invece il procedimento di chi parte da una serie di materiali e spunti che vengono sperimentati e modellati sulla scena fino all'efficacia dell'azione teatrale. «Non mi interessa la ricostruzione storica o di atmosfera - spiega il regista - a me interessa il presente: il film e la sala sono due mondi che rimandano l'uno all'altro».
A conti fatti lo spettacolo di Manfredini, vincitore del Premio Ubu 2004 per la migliore regia, è una vera e propria elegia per un cinema porno: poetica e cruda, amara e appassionata.
Il risultato è interessante ma inquietante: la pièce riesce a risucchiare gli spettatori dentro a un mondo scomparso quasi definitivamente, rappresentandolo in poesia sublime tanto da trasformare gli uomini che si incontrano nel cinema in abitatori di una città del desiderio e del dolore.

Manfredini coinvolge il pubblico che assiste a un ruolo scomodo che non è quello dello spettatore comune, costringe a farsi carico delle situazioni e a ipotizzare delle soluzioni. I «dannati» - questi malati d'amore interpretati da Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Giuseppe Semeraro e dallo stesso Manfredini - riescono a far rivivere una classe morta, un passato ancora vivo.

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