"Alive-Sopravvissuti", stasera in tv: qual è la vera storia e chi è sopravvissuto alla tragedia sulle Ande

La vera storia della "società della neve", uomini e donne dispersi nelle Ande durante uno dei più terribili incidenti aerei della storia

"Alive-Sopravvissuti", stasera in tv: qual è la vera storia e chi è sopravvissuto alla tragedia sulle Ande

Stasera in tv verrà mandato in onda il film Alive - Sopravvissuti. Disponibile alle 21.15 sul neonato canale La7 Cinema (che prende il posto di La7d), il lungometraggio è diretto da Frank Marshall che, nel 1993, decise di portare sullo schermo la vera e terribile storia del disastro aereo delle Ande, partendo dal libro Tabù - La vera storia dei sopravvissuti delle Ande.

L'incidente aereo

La trama del film segue da vicino le vicende realmente accadute a partire dal 13 ottobre 1972, quando il volo 571, effettuato dal Fokker/Fairchild FH-227D delle Forze Aeree Uruguaiane sparì dai radar. Partito da Montevideo il 12 ottobre e diretto a Santiago del Cile, il volo fu costretto a effettuare una tappa intermedia a causa delle condizioni meteorologiche avverse, con le Ande avvolte da una fitta nebbia che rendeva pericoloso continuare il viaggio. Il giorno dopo, il 13 ottobre appunto, il meteo non si era rivelato più clemente. La nebbia rendeva ancora ostica la visibilità, ma i piloti, Julio César Ferradas e Dante Héctor Lagurara, decisero comunque di proseguire il viaggio. Un po' per non mettere l'aeronautica militare nella condizione di dover rimborsare i biglietti, vista una condizione economica già fallimentare, un po' perché i passeggeri erano soprattutto componenti di una squadra di rugby che avrebbe dovuto fare un tour in Cile e un po' perché, consultandosi con l'equipaggio di un volo proveniente proprio da Santiago del Cile, erano stati tutti rassicurati sul fatto che si potesse effettuare la tratta senza troppi problemi o pericoli.

Il pilota Lagurara, che era ancora inesperto e stava ancora collezionando le ore di volo necessarie a diventare comandante del Fokker, divenne suo malgrado il responsabile di quello che avvenne poco dopo. Il pilota, infatti, calcolò in modo errato la posizione dell'aereo: certo di essere nei pressi della pista di atterraggio dell'aeroporto di Santiago del Cile, il pilota portò l'aereo dritto alla Cordigliera delle Ande, contro cui si schiantò alle 15.31, a circa 4.200 metri d'altitudine. L'ala destra venne divelta dal corpo principale del mezzo e finì con l'essere una lama incandescente che tagliò la parte anteriore dell'aereo, all'altezza più o meno della cambusa. Mentre la coda precipitava, l'elica del motore destro distrusse ciò che restava del mezzo. La fusoliera finì così col precipitare nel vuoto, colpendo uno sperone di roccia che frantumò anche l'ala sinistra, trasformando ciò che restava dell'aereo in una piccola cabina allungata che si fermò su una vallata in mezzo al nulla, interamente coperta di neve.

I sopravvissuti allo schianto

Il volo, in ordine, ospitava 45 persone, tra passeggeri e membri dell'equipaggio. La maggior parte era composta dai componenti della squadra di rugby dell'Old Christians Club, che viaggiavano con membri della famiglia o con alcuni amici. Durante l'impatto, dodici persone persero immediatamente la vita, compreso Ferradas. Nel corso della prima notte, altri cinque morirono a seguito delle ferite subite durante il terribile incidente. Tra questi anche il secondo pilota, Lagurara, che prima di spirare continuò a dire che l'aereo aveva superato Curicò, convincendo così i sopravvissuti di trovarsi nella parte cilena delle Ande. In realtà, l'impatto avvenne in territorio argentino e questa discrepanza sviò i soccorsi e, allo stesso tempo, diede false convinzioni ai sopravvissuti.

Gustavo Zerbino e Roberto Canessa, studenti di medicina, prestarono i primi soccorsi a tutti coloro che riportavano delle ferite. Non avendo però alcuna esperienza medica effettiva né strumenti adatti furono costretti a improvvisare. Intanto i superstiti si occuparono di creare, con l'utilizzo di bagagli e sedili divelti, una sorta di barriera sulla spaccatura della fusoliera, di modo da poter usare questa come ricovero per la notte glaciale, che poteva arrivare ai -35 gradi centigradi. La neve, però, divenne uno strumento per combattere la disidratazione, mentre il poco cibo trovato nei bagagli sostenne il gruppo di superstiti per qualche giorno. Tuttavia, nonostante il razionamento estremo, il cibo finì in fretta e questo costrinse il gruppo a prendere la decisione più terribile: cibarsi della carne di chi non era sopravvissuto. Nel libro Dovevo sopravvivere, come riporta Focus, Roberto Canessa, a proposito della scelta del cannibalismo scrive: "ognuno con una lametta o un frammento di vetro in mano, tagliammo con cura i vestiti da un corpo il cui volto non potevamo sopportare di guardare".

Con il tempo che passava e gli aiuti che non arrivavano, i superstiti cominciarono ad ambientarsi in un luogo inospitale. Tuttavia il loro inferno non era ancora finito. La notte del 29 ottobre una valanga travolse la fusoliera, uccidendo subito otto persone. Per tre giorni, i superstiti rimasero bloccati nella fusoliera quasi piena di neve. L'ossigeno arrivata solo da un foro fatto da Nando Parrado, che sarebbe diventato uno degli eroi di questa tragedia. Per tre giorni gli uomini rimasero immersi nella neve, costretti a dormire in piedi, obbligati a fare i propri bisogni sul posto e, ancora una volta, a nutrirsi dei cadaveri di chi aveva perso la vita nella valanga. Quando l'aereo venne colpito da una seconda slavina , esso era già così immerso nella neve da non ricevere nessun danno ulteriore. Al quarto giorno di reclusione, quando la tormenta finalmente finì, i pochi superstiti uscirono di nuovo all'aria aperta e decisero di organizzare una spedizione per cercare aiuto, visto che per il resto del mondo erano tutti morti. Ed è in questo momento che Nando Parrado si rivelò fondamentale.

La storia di Nando Parrado e il salvataggio

Subito dopo lo schianto iniziale, Nando Parrado venne creduto morto. Come fecero anche con gli altri, Canessa e Zerbino lo portarono fuori dalla fusoliera dopo aver constatato la dipartita, a causa di una terribile ferita alla testa. Ma, in realtà, proprio questa scelta gli salvò la vita: il ghiaccio, la disidratazione e il freddo "congelarono" la sua ferita, impedendole di gonfiarsi e di causare la morte dell'uomo. Quando arrivò la valanga, Parrado fu l'ultimo a essere tirato fuori, rischiando nuovamente di perdere la vita e, ancora una volta, riuscendo a sopravvivere. Questo gli diede la convinzione che il suo destino era quello di non perire, ma anzi di aiutare gli altri a essere salvati e per questo convinse tutti che l'unico modo per riuscire a sopravvivere era quello di organizzare una spedizione. Dopo varie prove e test, i prescelti furono Parrado, Canessa, Vizintin e Turcatti. La partenza avvenne il 15 novembre, ma il quartetto non andò lontano, a causa di una tempesta di neve che li costrinse a tornare indietro. Nel frattempo le condizioni di Turcatti peggiorarono, a causa di un livido che si infettò e gli rese impossibile camminare. La seconda spedizione portò i tre prescelti a scoprire la coda dell'aereo, con cibo, vestiti puliti e batterie. Nel rendersi conto che le distanze erano più ampie di quanto non avessero calcolato, i tre tornarono ancora una volta alla fusoliera, dove altri erano spirati in attesa della salvezza e ben presto organizzarono altri viaggi alla coda per sfruttare ciò che c'era al suo interno.

La spedizione definitiva partì il 12 dicembre 1972, due giorni dopo la morte di Turcatti. Parrado, Canessa e Vizintin, però, compresero che le indicazioni che avevano ricevuto dal pilota prima della morte erano sbagliate. Il cammino era molto più lungo e duro di quanto previsto e per questo Vizintin accettò di tornare alla fusoliera, lasciando agli altri due i propri viveri per aumentare le possibilità di successo. Per sette giorni i due scesero a valle e poi, seguendo il letto di un fiume per alcuni giorni, riuscirono finalmente a trovare prima segni di vita e poi tre uomini a cavallo. Attraverso un foglietto lanciato dal mandriano Sergio Catalàn, Parrado riuscì a comunicare la sua identità e a chiedere aiuto per gli altri superstiti. Il mandriano diede subito prova di aver compreso la situazione e, dopo aver lanciato alcuni pezzi di pane ai due sopravvissuti, andò alla ricerca d'aiuto.

Furono infine Parrado a Canessa a guidare l'elicottero di salvataggio nel punto esatto dove si trovava quella che poi sarebbe diventata nota con il nome di "società della neve". Dopo 72 giorni di prigionia nella neve, Parrado, Canessa e gli altri 14 superstiti vennero tratti in salvo.

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