
Sono ossessionato dalla storia, quella con la esse maiuscola, intendo». E siccome Brady Corbet è un accanito cinefilo fin dalla tenera età, oggi che è alla vigilia delle 37 primavere da compiere in agosto, associa volentieri le sue due passioni.
La mamma, single e intermediaria di mutui ipotecari, la prima ad essersi accorta delle inclinazioni del figlio, lo portò a un casting a soli sette anni.
Non andò bene ma il bimbo superò diversi stadi di selezione fino all’esordio ufficiale, quattro anni dopo, in una sitcom. Il talento c’era, insomma e non ha impiegato molto ad emergere in vari titoli di rilievo da Melancholia di Lars von Trier a Saint Laurent di Bertrand Bonello e poi da Sils Maria di Oliver Assayas, presentato a Locarno, fino a Forza Maggiore di Ruben Ostlund, in seguito pluripremiato a Cannes. O Escobar, il biopic sul re dei narcos.
Dietro la macchina da presa sono arrivate opere importanti fino al recente The brutalist che ha raccolto molti onori e una celebrità acclamata che lo ha portato a Milano, ospite della Cineteca, per una rassegna personale.
Che cosa ha lasciato The brutalist alla sua vita?
«Che cosa ha levato, vorrà dire... Tre annidi lavoro per girarlo, ventidue mesi di post produzione e la campagna per gli Oscar - un altro annetto scarso - che è stato un periodo di aridità assoluta, totalmente inutile. Una perdita di tempo senza senso».
Come mai tutta questa urgenza.
«Tanti progetti, molte idee. Manca il tempo da dedicare a questo lavoro. E anche a mia figlia».
Ma è vero che è già pronto un film per Venezia?
«Siamo in post produzione con il mixaggio e tra un paio di settimane stamperemo le prime copie su pellicola. Non posso dare l’ufficialità della premiére al Lido ma...».
Parliamo di Ann Lee, vero?
«È un musical, scritto, diretto e girato con Mona (Fastvold, compagna di vita e arte, musa e madre della sua bambina, ndr) e dedicato a lei. Racconta la vita della fondatrice degli Shakers, una setta religiosa nata in Inghilterra nell’orbita del movimento quacchero. Ann Lee, turbata dal peccato, soprattutto in ambito sessuale, emigrò negli Stati Uniti a metà del Settecento, diffondendo la sua religione».
Chi ne sarà interprete?
«Ann Lee sarà Amanda Seyfried, poi ci sarà Stacy Martin, la moglie di Lee Van Buren in The brutalist, Tim Blake Nelson e Christopher Abbott».
L’amico comune che le presentò Mona Fastvold.
«Sono un po’ preoccupato (sorride- ndr) perché sto preparando film che in America sfideranno i divieti. Mi aspetto di ricevere X rated a tutto spiano».
Perché tutti questi timori.
«Sono film di rottura, forse anche troppo. D’altra parte io non sono interessato a fare il decimo remake dei supereroi o quelle maxi produzioni hollywoodiane che non sanno di nulla e sembrano di plastica. Anzi. E forse lo avranno capito laggiù che di questi progetti non me ne frega un...».
Parla sempre al plurale, dobbiamo aspettarci altri progetti strani?
«Con Mona abbiamo finito di scrivere una sceneggiatura di duecento pagine per una pellicola che racconterà la storia della California del nord in chiave economica dalla febbre dell’oro dell’altro secolo alla Silicon valley di oggi. Se li immagina i liberal...»
Non c’è nulla di male.
«Oggi i democratici sono più conservatori dei conservatori, parola di uno di sinistra che però può parlare di personaggi lontanissimi dalle sue idee senza fornire giudizi. Insomma il contrario della società attuale che chiede subito e soltanto da che parte stai. Film e politica sono mondi diversi. Talvolta opposti».
Sbaglio o ha usato il termine pellicola negli anni del trionfo del digitale?
«Ann Lee sarà stampato su 70 mm e negli ultimi mesi ho girato un documentario su un uomo che riprendeva i fuochi d’artificio con i droni anch’esso su pellicola. È una bugia che il digitale resti per sempre. Ho riprese sul mio pc che hanno pochi anni ma un risoluzione talmente bassa da risultare inguardabili».
Come definirebbe il suo cinema per chi non conosce Brady Corbet?
«Faccio mie le parole di Jafar Panahi: “Se qualcuno potesse raccontare un film, sarebbe inutile girarlo”».