Ma la città preferisce i «danee» al potere

Macché capitale, capitali semmai. Che in milanese si dicono danee. Alla Milano capitale non ci ha mai creduto nessuno. Qui al Nord siamo fatti al massimo per lavorare, che non è la stessa cosa di comandare. Il lavorare produce soldi, il comando genera potere. E Milano al secondo ha sempre preferito i primi. Lo sapevano bene gli spiriti magni del passato, che forse proprio perché non erano milanesi, erano capaci di vedere nella nebbia padana una spanna più in là dei loro operosi «concittadini». Già Carlo Emilio Gadda - brianzolo in verità - aveva capito che qui lo scaldabagni è più importante dell’Ariosto e che Milano è una città vittima del «morboso culto della propria supposta intelligenza» la cui gente è vergognosamente «assente da tutte le attività del governo».

E se il tosco-milanese Indro Montanelli (da giornalista più che da storico) aveva intuito che è dai tempi degli spagnoli e degli austriaci che la città si è adagiata nel suo comodo ruolo di non-capitale, un altro toscano come Luciano Bianciardi, costretto a venir qui dalla sua Maremma guarda caso per trovare lavoro, aveva già capito tutto tre mesi dopo esserci arrivato quando a un amico scriveva: «Ma cosa credi? Che io mi voglia proprio far mettere le mutande di latta da questi quattro coglioni? Perché i milanesi, credimi, son coglioni come poca gente al mondo».

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