Clamoroso a Bilbao, l’autarchia batte i Galacticos

Meglio non scomodare Davide e Golia, per una volta. Mentre il San Mames di Bilbao esulta per l’1-0 con cui l’Athletic ha battuto il Real Madrid, ci si accorge che il luogo comune biblico buono per ogni sconfitta del club più vincente d’Europa, stavolta non funziona. Perché questo Real Madrid di gigante ha solo il budget e il palmares, e soprattutto perché l’Athletic Bilbao che sabato ha compiuto il «galacticidio» non ha proprio niente del mite pastorello.
Questa storia, più della Bibbia, potrebbe tirare in ballo i poemi omerici. La sfida tra i baschi indipendentisti e la squadra «reale» simbolo del centralismo spagnolo, è infinita. Da una parte l’eleganza/arroganza dei primi della classe, dei più forti e dei più ricchi. Dall’altra l’orgoglio di chi è arrivato prima (l’Athletic nasce nel 1898, il Real nel 1902) e si sente storia a prescindere dai risultati; il carisma di chi è stato obbligato dal franchismo ad abbandonare la propria, inimitabile lingua (l’euskera, unico idioma non indoeuropeo del continente, vietato per legge dal Caudillo) e che in virtù di queste imposizioni ha visto pure cambiato il nome inglese della squadra da Athletic ad Atlético.
E chi di autarchia è stato ferito, con l’autarchia reagisce. E di autarchia condisce ogni sfida, per impari che sia. Perché l’Athletic - per statuto societario - può tesserare solamente giocatori nati o cresciuti in Euskal Herria (il Paese basco) o figli di baschi. Un bacino di poco più di tre milioni di persone, di sei province limitrofe: come se la Roma non potesse pescare più lontano di Frascati. Nella rosa attuale, ad esempio, il solo Amorebieta è nato in Venezuela da genitori baschi. E pazienza se nel calcio globale può sembrare anacronistico e masochistico. I soci hanno deciso così, i tifosi sono d’accordo, il valore «nazionale» vale più di un «titulo» e chi parla di razzismo prima guardi in Primavera, dove gioca il Balotelli di Biscaglia, Ramalho. Dall’altra parte, invece, c’è una multinazionale del pallone, con 15 stranieri in rosa: Olanda, Brasile, Mali, Polonia. Solo cinque sono nati a Madrid: il capitano Raul, Guti, un paio di riserve e il portiere Casillas.
Sono opposti in tutto, Athletic e Real. Dal tifo organizzato, con gli «Ultras Sur» madrileni di estrema destra e gli «Herri Norte Taldea» bilbaini di simpatie radicali e antifasciste, al retroterra storico (il Real squadra di Franco, mentre la sinistra «abertzale» basca affonda da sempre le radici nella squadra: il padre del terzino Koikili è stato perfino detenuto). Al Bernabeu giocano i Palloni d’Oro e si fischia se non si vince la Liga per la 32esima volta; alla Catedral scende in campo una formazione che sfoggia più “r” e “x” negli impronunciabili cognomi che talento nei piedi, ma c’è il tutto esaurito se si evita la retrocessione. In una cosa sono uguali: mai state in Segunda division.
Dittature, Eta, regionalismi, aristocrazia: tutto si mescola tra due squadre grandi per motivi diversi. Anche sul piano economico, perché il calcio di oggi è finanza, cataste di euro e sponsor. Quello che per un secolo è stato bandito dalle casacche «pure» dei Leones baschi e che solo l’anno scorso, per esigenze di bilancio, è stato accettato. Il Real di Florentino Perez questi problemi non li ha: in estate - tra Kakà, Cristiano Ronaldo, Albiol, e Xabi Alonso (basco di San Sebastian) - ha speso qualcosa come 259 milioni di euro, imbarazzando anche uno come Michel Platini, che il proletariato non sa manco in che ruolo giochi. L’Athletic Bilbao, invece, ha speso 2,3 milioni per accaparrarsi gente del calibro di De Marcos, De Cerio, Xabi Castillo e San José. Ragazzini cresciuti nel verdissimo giardinetto di casa dei Paesi baschi.
Per fortuna, alla fine, i Galacticos non calciano gli zeri dei conti in banca, non dribblano le Champions League conquistate e non marcano a uomo le fideiussioni. Calciano palloni rotondi, dribblano altri giocatori e marcano gli attaccanti. Quelli che - come Llorente sabato - ogni tanto scappano e segnano.

Per ricordare a tutti che l’urocalcio si può anche risolvere con un golletto su calcio d’angolo e 88 minuti di catenaccio, parate miracolose di un tale chiamato Gorka e gioco «all’unisono con il battito del cuore del pubblico», come scrive la stampa basca.
Per ricordare che nell’asilo di casa si impara a giocare come a Rio, a Manchester o a Lione. E che - come dice il tecnico del Bilbao Caparros - «quieremos hombres, non nombres». Servono uomini, non nomi.

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