«Clima avvelenato, basta scontri tra poteri»

«L’equilibrio di per sé è una virtù...». Non si scompone per nulla il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, di fronte alle critiche di chi, sperando che la Chiesa contribuisse a dare una spallata al premier, ha giudicato troppo «equilibrate» le parole da lui pronunciate un mese fa sul caso Ruby. Non si scompone, e continuando a sfiorare l’anello cardinalizio che Benedetto XVI gli ha donato, guarda oltre. Chiede al mondo della politica e delle istituzioni di porre fine alla delegittimazione reciproca che avvelena il clima e rischia di essere senza ritorno. Ricorda ai cattolici che non può esservi «contrattazione» su valori come la vita, la famiglia, la libertà di educazione. Ribadisce che il disegno di legge sul fine vita va sostenuto perché «corrisponde al buon senso». Chiede che l’Europa sia presente in modo «adeguato, tempestivo ed efficace» nell’aiutare l’Italia a fronteggiare l’ondata migratoria dal Nord Africa e invita a «vigilare» perché questi flussi non abbiano «un impatto devastante» sugli equilibri interni del nostro Paese.
Eminenza, nell’ultima prolusione lei ha parlato di «fibrillazione politica e istituzionale» e di poteri dello Stato che «si tendono tranelli». Ha chiesto a tutti di auto limitarsi. Le sue parole sono state ascoltate?
«Per la verità, personalità diverse quanto a collocazione politica e sensibilità culturale mi hanno fatto capire di condividere la stessa preoccupazione per i “tranelli” da evitare. Si sta producendo una delegittimazione reciproca e se non si sta attenti potrebbe essere troppo tardi qualora si decidesse di tornare a maggior senso delle istituzioni. La gente, dal canto suo, ha a che fare ogni giorno con questioni molto concrete e decisamente esigenti. Francamente non merita di dover assistere a questo spettacolo che sembra riprodurre il genere urlato di certi dibattiti televisivi, dove chi alza di più la voce vorrebbe dimostrare di aver ragione. La fibrillazione politica ed istituzionale non avvantaggia la società e rischia di creare un clima avvelenato che rende insicuri e, alla lunga, intolleranti».
Che cosa preoccupa di più la Chiesa in questo momento, guardando all’Italia?
«La preoccupazione di fondo è che una visione edonista della vita abbia la meglio, mortifichi la dignità personale, e corrompa le energie migliori del nostro Paese. Siamo tutti avvertiti del fatto che una certa cultura della seduzione ha introdotto una mentalità, e ancor prima una pratica di vita, dove sono state messe al bando parole come sacrificio, impegno, disinteresse, e tutto sembra diventare moneta. Questo ha indotto anche tra i giovani falsi miraggi: la rincorsa alla vita facile più che il bene, cercare l’utile più che il vero, inseguire l’effimero anziché ciò che dura. Oggi, di fronte alla crisi economica, ci si rende conto finalmente che non si può continuare come se nulla fosse. Il problema va affrontato però alla radice perché dietro la crisi si nasconde una difficoltà più profonda: senza valori veri e condivisi, e senza passare dalla semplice difesa dei propri interessi alla salvaguardia del bene comune, non si riesce a far crescere un popolo».
Lei ha detto che quanti assumono un mandato politico devono essere coscienti della sobrietà e dell’onore che esso comporta. Ha però sollevato anche la domanda sull’«ingente mole di strumenti di indagine» messi in campo per il Rubygate. L’hanno accusata di essere troppo equilibrato: come risponde?
«L’equilibrio di per sé è una virtù, l’equilibrismo no. Nel primo caso si tiene in conto della complessità dei fattori in gioco, nel secondo si cerca solo la quadratura del cerchio. È una questione di responsabilità. Ora il problema morale è fin troppo evidente perché venga piegato a beneficio dell’una o dell’altra fazione politica. La coerenza personale e il rispetto delle regole, sono la condizione necessaria per lo sviluppo di una democrazia, il cui scopo ultimo - che la giudica e la misura - resta il raggiungimento effettivo del bene comune: questo non è solo di tipo economico».
Come giudica le manifestazioni di piazza in difesa della dignità della donna?
«Mi sembra che la donna ancor oggi viva, nel mondo occidentale, una situazione inadeguata a motivo del ricorrente sfruttamento del corpo femminile, come di persistenti diseguaglianze sul piano sociale ed economico. Rimane il fatto che la situazione potrà cambiare solo assumendo la reciprocità tra i sessi come una scelta matura e non polemica, facendo emergere ciascuno la propria specifica sensibilità, senza indebiti livellamenti. Reciprocità vuole pur dire che la dignità della donna si salvaguarda “insieme”, e cioè con il rispetto necessario che l’uomo deve alla donna e con quello che la donna deve a se stessa».
Molti degli odierni difensori della moralità sono stati paladini della più totale libertà sessuale: secondo lei esiste una contraddizione?
«L’augurio è che questa nuova sensibilità non sia ristretta ad una stagione o, peggio ancora, ad una contingenza, ma sappia estendersi ad un impegno educativo di tutti, a cominciare dalle famiglie. In effetti la deregulation morale, cui abbiamo assistito per decenni, secondo la quale non esisterebbero vincoli da rispettare ma solo desideri da realizzare, mostra oggi il suo vuoto e le insostenibili conseguenze. È auspicabile che l’istanza etica, come quelle spirituale e religiosa che le sono intrinsecamente connesse, crescano in modo stabile nella coscienza collettiva».
Nell’ultima prolusione lei ha riproposto il tema dell’emergenza educativa, invocando una presa di coscienza e di responsabilità di tutta la società. Qual è, a suo avviso, la situazione del Paese?
«L’emergenza educativa non deve far dimenticare il contesto in cui avviene e cioè una crisi epocale, certamente non circoscritta al nostro Paese. Da tempo, dobbiamo riconoscerlo, è venuta meno la convinzione che l’essere umano si costruisce in rapporto alla realtà e non chiuso nella sua individualità. A lungo c’è chi ha pensato che il soggetto, a cominciare dal bambino, trova in sé la sua perfezione e perciò non va disturbato nel suo auto-sviluppo. Così facendo si è persa quella elementare verità per cui la crescita dell’io suppone sempre l’apertura al “tu”, fino a quello stesso di Dio. Quanto all’Italia non siamo stati esenti da questa pesante ipoteca individualista anche se nel dna della nostra cultura c’è una radice, quella cristiana, che fa della relazione e dell’apertura all’altro un suo carattere peculiare. Sono convinto che ancora oggi se sapremo riappropriarci dell’humus profondo del nostro popolo troveremo la strada migliore per integrare una visione antropologica dentro il mutato contesto culturale in cui ci troviamo. Ciò che fa la differenza anche in un momento di rapide trasformazioni e ciò che costituisce il cuore dell’innovazione è sempre la variabile umana, cioè la qualità morale delle persone. Tutto il resto è conseguenza».
Lei ha detto che i cattolici in politica devono trovarsi uniti sui «principi non negoziabili»: sono il criterio con cui scegliere al momento del voto?
«Come più volte mi è capitato di affermare anche di recente i cattolici devono trovare la loro unità in un insieme di valori, il cui tronco principale attiene ai temi della vita, della famiglia e della libertà di educazione. Trattandosi di valori primi, non possono essere ridotti a oggetto di contrattazione, ma esigono di essere accolti come criterio dirimente che aiuti a discernere con nettezza il bene dal male. Da questi beni discendono, come logico corollario, tutta una serie di altri valori come quelli sociali e di solidarietà che oggi esigono risposte spesso tempestive e molto complesse».
Il 7 marzo la Camera discuterà del fine vita. Si moltiplicano gli appelli per abbandonare il disegno di legge che vieta di sospendere alimentazione e idratazione. Perché la Chiesa auspica invece che sia approvato?
«La legge che sta per essere discussa alla Camera non è una legge “cattolica”. Semplicemente rappresenta un modo concreto per governare la realtà e non lasciarla in balia di sentenze che possono a propria discrezione emettere un verdetto di vita o di morte. I malati terminali rischierebbero di essere preda di decisioni altrui. Precisare poi che l’alimentazione e l’idratazione non sono delle terapie, ma funzioni vitali per tutti, sani e malati, corrisponde al buon senso dell’accudimento umano e pongono un limite invalicabile, superato il quale tutto è possibile».
Può dire che cosa pensa della riforma federale del nostro Stato?
«Non sono per partito preso contrario al federalismo anche perché il principio di sussidiarietà fu formulato per la prima volta da un Papa, Pio XI, proprio per reagire ad uno statalismo asfissiante che toglieva peso e responsabilità ai corpi intermedi. La Chiesa, nella sua secolare esperienza, ha imparato a declinare una forte capacità di stare unita, ma attraverso forme di presenza radicate profondamente nei vari territori. Ciò premesso, la riforma federale va vagliata attentamente e va realizzata tenendo a mente che non si dà sussidiarietà efficace senza una vera e continua solidarietà».
Dalla Tunisia all’Egitto alla Libia, cadono molti regimi con conseguenze imprevedibili. Che cosa accadrà? Come faremo fronte all’inevitabile ondata migratoria?
«Quando i diritti delle persone vengono conculcati, prima o poi il popolo trova la strada per ritrovare la sua libertà. Quel che dà a pensare in questo caso è l’enorme tributo di sangue. Ma proprio questo chiama in causa, a maggior ragione, la politica internazionale perché stia attenta e non si distragga dietro questioni secondarie. La drammaticità del Medio Oriente e della regione nordafricana è un appello a tutto l’Occidente e, nel caso della Libia, al nostro Paese per la vicinanza geografica. L’ondata migratoria va collocata dentro quest’assunzione di responsabilità. Quindi bisognerà vigilare perché non abbia un impatto devastante sui fragili equilibri interni, e all’ospitalità doverosa faccia da contrappeso la necessaria legalità. L’Italia è la porta dell’Europa e l’Europa deve essere presente in modo adeguato, tempestivo ed efficace».
Lei ha annunciato che celebrerà una messa per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Non è curioso che la Chiesa – la quale visse il processo risorgimentale come una ferita - oggi sia convinta sostenitrice di questa festa, mentre alcune forze politiche ed economiche avrebbero preferito non celebrarla?
«Effettivamente può apparire curioso, ma non assurdo. In realtà la Chiesa ha sempre alimentato l’unità del nostro Paese ben prima della sua unificazione statale. Quando la Penisola era ancora una pezzatura multicolore è stata la presenza quotidiana della Chiesa, la sua evangelizzazione e la sua azione, che hanno offerto un codice culturale e una matrice perfino sociale ed economica, tendenzialmente omogenei. Basterebbe pensare alla lingua e alla sua presenza capillare nelle parrocchie. La Chiesa, al di là delle contingenze storiche dell’unità e dello Stato pontificio che appariva come un baluardo indispensabile per garantire l’indipendenza del Papa, rappresenta del popolo italiano l’elemento sintetico, il punto di vista che accomuna, la presenza che affratella.

Questo è quello che, come credenti oggi nel nostro Paese, vogliamo rappresentare: un contributo alla pacificazione e alla maturazione della nostra Patria, che finalmente torna ad essere pronunciata dopo decenni di ostracismo culturale e di indifferenza diffusa».

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