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Clinton attacca il successore: "Bush ha isolato l'America"

L'ex presidente Usa parla del terrorismo: "Al Qaida i movimenti eversivi vanno combattuti collaborando con altri Paesi, l'America non può risolvere i problemi da sola. Torniamo a rispettare il diritto internazionale e finirà l'ostilità" 

Clinton attacca il successore: 
"Bush ha isolato l'America"

Marie-Laure Germon
Stéphane Marchand

L’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, ha presentato la traduzione francese di Donner: comment chacun de nous peut changer le monde («Dare: come ognuno di noi può cambiare il mondo»), il suo ultimo libro, edito da Odile Jacob. Ha concesso questa intervista.

Signor Clinton, dalla fine della Guerra fredda una fissazione come la guerra in Irak mancava. La reputazione americana era mai stata così cattiva?
«Con la guerra del Vietnam: allora ero giovane e mi dicevo che l’America sbagliava, ma restava un buon Paese senza mire colonialiste nelle sue guerre. Il mondo era diviso in due nella lotta mondiale fra totalitarismo e libertà, ma ora la situazione in Irak è diversissima. In un mondo interdipendente, i suoi effetti sono ben peggiori. Nemmeno l’America, da sola, può risolvere un problema difficile. Occorre risolverlo insieme, in particolare il terrorismo. Prima e dopo l’11 settembre, sono stati polizie, eserciti, servizi segreti, esperti finanziari di Paesi stranieri, che collaborano con noi, ad arrestare i responsabili degli attacchi contro gli Stati Uniti. È una metafora del mondo di oggi. Siamo in difficoltà per l’Irak,ma anche per l’unilateralismo Usa su riscaldamento climatico, proliferazione e fine degli esperimenti nucleari».

Perché Bush ha preso questa strada?
«Perché credeva di poter fare quel che voleva, di cooperare solo all’occorrenza. È invece il contrario che va fatto, mantenendo l’atteggiamento tradizionale statunitense della II guerra mondiale: cooperare ogni volta che si può e agire da soli se è il caso. Ogni Paese ha diritto di difendere i suoi interessi, a condizione di rispettare una sorta di consenso sulla direzione generale da dare al mondo».

Se sua moglie Hillary sarà eletta presidente nel 2008, l’immagine dell’America migliorerà automaticamente?
«E rapidamente. C’è chi detesta l’America come tale, ma per lo più il disaccordo è sulle nostre politiche. Nella rielezione di Bush, il mondo intero ha visto l’appoggio alla visione del mondo del presidente. E si è irritato. Disimpegnarci dai combattimenti di prima linea, senza abbandonare i curdi e rischiare il conflitto fra Irak e Turchia; occuparci di riscaldamento climatico e processo di non-proliferazione; tornare a rispettare diritto internazionale e convenzione di Ginevra: così presto finirà il risentimento verso di noi. Perché cittadini americani sono ovunque serva aiuto. In Indonesia, dopo lo tsunami, la popolarità Usa ha fatto un balzo straordinario per gli interventi umanitari».

Lei ha appena pubblicato un libro sul dono e sulla generosità individuale. Capo della Fondazione Clinton, lei è del ramo. Dove sono i popoli più generosi? Ci sono Paesi più generosi di altri?
«In un buon, in un grande Paese, la società deve avere tre caratteristiche. Occorre un’economia prospera; la miglior tutela sociale si ha quando tutti hanno un lavoro. Occorre un buon governo, che si occupi di tutto ciò che non spetta al mercato, e poi una società civile vibrante di organizzazioni private, perché nessuno sia dimenticato, senza tutela».

Sono più generosi i Paesi liberali di quelli statalisti?
«Nei Paesi a Stato e/o economia deboli, la società civile dovrebbe essere più forte, manon auspico che la società civile si sostituisca al governo. Guardate i Paesi dell’Europa del nord, che danno un forte aiuto pubblico allo sviluppo,mahanno anche dato grossi contributi privati alle vittime dello tsunami. Non è un gioco fine a se stesso: l’uno comporta l’altro. Il governo c’è per facilitare l’inoltro dell’aiuto privato. C’è un sistema formidabile nei Paesi Bassi: la lotteria del codice postale. Ogni abitante del codice postale vincente ottiene qualcosa, perché la lotteria canalizza una parte dei guadagni verso i Paesi in via di sviluppo. La lotteria dà molto denaro e consente di lottare contro l’Aids e il riscaldamento climatico in 46 città dei cinque continenti».

La Francia ha una tradizione di aiuto pubblico, ma l’aiuto privato cala…
«La tassa di Chirac sui biglietti aerei tenta di risolvere i problemi sanitari nei Paesi poveri. Cinque anni fa, 500.000 bambini morivano ogni anno di Aids. Salvo in Brasile e Thailandia, solo 10.000 bambini nel mondo ricevevano medicine gratis. Ho chiesto l’aiuto agli amici Chris e Jamie Cooper- Hohn, che hanno una fondazione per i bambini, alimentata automaticamente dall’1% dei capitali dei loro fondi d’investimento. Così si è passati a 20.000 bambini. La tassa aerea ci ha permesso di dare medicine a 100.000 bambini. È un misto pubblico-privato che funziona».

Organizzazioni private s’avvicinano alla sua fondazione perché la celebrità è un moltiplicatore finanziario. Come le seleziona? «Prestiamo servizi diretti dove la qualità dei collaboratori conta più della notorietà. Sono i Paesi a selezionarli: aiutiamo a sviluppare un programma anti-Aids chi chiede il nostro intervento. Ne formiamo il personale, aiutiamo a trovare le medicine meno care. Sosteniamo 25 Paesi e vendiamo medicine in 71. Il sistema ibrido è più svelto e meno caro: ha meno spese fisse della maggioranza dei programmi statali...». Rende più generosi la fede o il fisco? «Dedurre i contributi aiuta, ma l’essenziale è la convinzione. Va convinto chi non dà non sentendovisi tenuto o perché pensa che, dando, non cambierà le cose. Siamo diventati un’efficacissima macchina da doni. Ma si donano anche consumando diversamente, rispettando l’ambiente».

Gli americani sono generosi, ma l’America tirchia. Come lo spiega?
«È molto preoccupante. Gli americani credono che il Paese spenda il 10% in aiuto all’estero, ma che il 5% basterebbe. Però la cifra vera è l’1%! Questa ignoranza impedisce che il tema sia oggetto di una campagna e nessuno rischia di perdere un’elezione perché avaro col mondo. Ma ciò sta cambiando. Questa elezione presidenziale è la prima della mia vita dove gran parte dei cittadini andrà a votare per chi sarà il più idoneo a restaurare la nostra statura internazionale, a farci tornare nel concerto delle nazioni. Nel cuore dell’America profonda, perfino gente che mai ha avuto il passaporto si preoccupa per la reputazione del Paese. Dobbiamo almeno pagare all’Onu la nostra quota di spese per lo sviluppo ».

Da quindici anni l’America promette di far di più.
«Durante la Guerra fredda c’è stato una sorta d’accordo tacito fra Stati Uniti, Europa e Giappone: i primi spendevano di più in armamenti, per offrire un ombrello comune, e gli altri due si concentravano sull’aiuto allo sviluppo. L’accordo ha funzionato bene. Caduto il muro di Berlino, diminuite le nostre spese militari, noi avremmo dovuto aumentare l’aiuto allo sviluppo. Ma nel 1994 il Congresso, a maggioranza repubblicana, non era interessato».

I buoni democratici contro i cattivi repubblicani?
«No: quando Bush arrivò alla Casa Bianca, le Chiese cristiane cominciarono a chiedere più soldi contro Aids, malaria e tubercolosi. E l’Africa ne ha approfittato. Con la Fondazione Gates e la Fondazione Clinton, Bush ha facilitato l’invio in dieci Paesi d’un aiuto medico anti-malaria e anti-Aids. Ora lì siamo popolarissimi.

Per questi popoli, l’America non è la guerra in Irak, è molto di più: incarna la possibilità di mandare i figli a scuola e di dar loro un futuro».

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