Codice da Vinci, protagonista è la menzogna

Massimo Introvigne

Più lo butti giù, più si tira su. Il film Il Codice da Vinci è stroncato dai critici, ma cinquanta milioni di copie del romanzo assicurano comunque il successo di pubblico. Il film non è ideologico perché è brutto: è brutto perché è ideologico. Accentua in modo caricaturale le atmosfere buie e sinistre che nel romanzo hanno almeno come contrappunto gli occasionali modi ironici del protagonista Robert Langdon.
Non si tratta di imperizia degli attori o del regista, ma della scelta consapevole di creare – calcando ulteriormente la mano rispetto al romanzo – un’atmosfera dove lo spettatore è invitato a percepire immediatamente la Chiesa in generale e l’Opus Dei in particolare come istituzioni oscure e sinistre, che prosperano nel buio e tramano nell’ombra. Il film dà anche fastidio perché è prolisso e verboso. I personaggi, letteralmente, non esistono: sono semplici portavoce di una tesi. L’evoluzione di Sophie da scettica a credente e il fiorire del suo amore per Robert Langdon nel libro ci sono, nel film no. Che l’Opus Dei, pur colpevole di ogni male, sia però contraria all’omicidio (è il Maestro anticristiano, non il vescovo dell’Opus Dei, a manipolare l’inconsapevole monaco assassino Silas) è una sfumatura del libro che nel film è accennata così rapidamente da sfuggire alla maggioranza degli spettatori.
Lo slogan con cui la casa cinematografica risponde alle critiche - «è solo fiction» - è del tutto fuorviante. Come cattolico, se pure davvero fosse «solo fiction», protesterei ugualmente invitando a scherzare coi fanti e lasciare stare i santi. Se mi proponessero un film dove la mia famiglia fosse dipinta come una cosca mafiosa, non mi accontenterei della scusa secondo cui è «solo fiction». E a un cristiano la sua famiglia spirituale, la Chiesa, non sta meno a cuore della famiglia carnale.
Come sociologo e studioso di religioni, mi indignerei anche se non fossi cattolico, perché Dan Brown insiste che la fiction è solo un pretesto per svelare segreti e documenti che un secolare complotto ha nascosto. Un complotto cui partecipano necessariamente non solo le Chiese ma anche gli studiosi accademici di storia del cristianesimo, una materia insegnata in gran parte da laici o marxisti fin dai tempi di Feuerbach e di Renan. A chi afferma che sostenere che «è tutto vero» è un semplice espediente di Dan Brown perché più gente vada al cinema, rispondo che ci sono purtroppo numerose indagini sociologiche secondo cui molti prendono le bufale del Codice per verità storiche.
L’idea del complotto è ridicola. I documenti di cui parla Dan Brown, i cosiddetti «Dossiers Secrets», sono falsi confezionati da tre avventurieri francesi nel 1967. Negli anni 1980 gli stessi tre avventurieri hanno descritto i «Dossiers secrets» con espressioni dove l’aggettivo era brillante, spiritoso o geniale ma il sostantivo era mistificazione o burla. Dan Brown è rimasto l’ultimo al mondo a considerare veri documenti riconosciuti falsi da decenni dalle persone stesse che li hanno confezionati.
Il film allora è brutto come tutti i film ideologici nati al servizio di una tesi preconcetta malamente travestita da fiction. Non essendo musulmani fondamentalisti, i cattolici seri non impediranno a nessuno di andare al cinema né tireranno sassi o bombe.

Ma rifletteranno su come è triste e squallido il tiro al cristiano della cultura dominante, e di quale maleolente ciarpame essa si serva per vendere di nuovo Cristo: non per trenta denari, ma per i trenta milioni di dollari che ha guadagnato Dan Brown.

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