Un giorno così No Logo non l’avrebbe sognato nemmeno Naomi Klein. In 24 ore l’invisibile mano della sfiga ha colpito due simboli mondiali del capitalismo senza frontiere. Ikea è caduta, come un armadio Aneboda fissato male, in una trappola velenosa. E Pepsi è annegata nel suo stesso gigantismo, l’enorme corpaccione ferito a sangue dallo svarione di una minuscola segretaria. A completare il triangolo delle coincidenze, la mazzata ricevuta dalla catena di supermercati Pam, anche loro, in quanto grande distribuzione, invisi agli odiatori del capitalismo che, come si sa, amano la boutique sotto casa e la considerano vittima del centro commerciale. Tre storie, un unico filo che le lega: défaillance clamorose e umanissime per grandi società da sempre raffigurate come diaboliche e onniscienti.
Cominciamo dalle bollicine. Nella sede della Pepsi Cola in North Carolina viene notificata una sentenza di condanna per plagio. Il tribunale del Wisconsin ritiene la compagnia che in tutto il mondo contende alla Coca Cola il dominio del ricco mercato delle bibite gasate e no, colpevole di aver plagiato l’idea di imbottigliare l’acqua con il marchio Acquafina, che la Pepsi ha lanciato nel 1995. Ad accusare sono due intraprendenti imprenditori del Midwest: Charles Joyce e James Voigt dicono di aver confidato l’idea del nome Acquafina a un distributore di bibite, sostenendo che in seguito Pepsi avrebbe rubato loro l’idea. E considerando il mercato mondiale conquistato dall’acqua imbottigliata da Pepsi, il giudice c’è andato giù duro: la sentenza stabilisce un risarcimento da 840 milioni di euro, oltre 1,2 miliardi di dollari. Una cifra con talmente tanti zeri che nemmeno la straricca Pepsi può sborsarla senza patemi. E soprattutto una condanna piovuta in modo del tutto inspiegabile, visto che l’ufficio legale si è detto completamente all’oscuro della causa. L’arcano è stato risolto interpellando Kathy Henry, una segretaria da anni in servizio nella sede Pepsi. L’impiegata ha dovuto ammettere di aver cestinato per errore la convocazione in tribunale, distratta «dai troppo impegni legati alla preparazione di un consiglio d’amministrazione». Una distrazione da 840 milioni. «È una delle coincidenze sfortunate di questa storia - spiega Joe Jacuzzi, portavoce della società che sta preparando il ricorso - ma non la sola: contestiamo radicalmente l’accusa. La negligenza è perdonabile». Evviva il fair play. Anche perché chiedere alla segretaria di pagare 800 milioni di danni servirebbe a poco.
E del resto nemmeno le multinazionali più potenti possono permettersi di maltrattare i collaboratori senza timore di finire col rimetterci. Basta vedere cosa è successo a Ingvar Kamprad, folcloristico (e mostruosamente ricco) proprietario dell’Ikea. Mezzo mondo parla del libro dato alle stampe da un ex manager del suo gruppo, Johan Stenebo. Il volume è un concentrato di veleno puro, un maleficio in 14 capitoli scagliato contro l’azienda e contro Kamprad, che Stenebo accusa di «utilizzare metodi da Stasi». L’83enne famoso per lo stile di vita francescano, nonostante sia tra gli uomini più ricchi al mondo, proprio come la polizia segreta dell’ex Germania est avrebbe una serie di informatori che gli inviano a casa messaggi e fax da 44 Paesi, dove sono sguinzagliati per tenere d’occhio i 135.000 dipendenti.
Eppure Stenebo era il braccio destro di Kamprad, quasi un figlioccio, incaricato di un importante segmento di sviluppo futuro dell’Ikea, quello dell’energia verde (tra le idee allo studio anche la vendita dei pannelli solari nei mobilifici). E certo alla svolta ecologista di Kamprad potrebbero non giovare gli aneddoti narrati nel libro Sanningen on Ikea («La verità su Ikea»): «C’è una legge non scritta per i vertici dell’azienda: lealtà a Ingvar fino alla morte». Torna anche l’accusa di razzismo, già in passato rivolta al miliardario: secondo Stenebo, nel gruppo i dipendenti non svedesi vengono chiamati «negri». Ikea Italia ieri ha smentito seccamente, facendo presente che dei 267 negozi nel mondo, 234 sono diretti da non svedesi. Il settimanale Der Spiegel, che anticipa pagine del libro ipotizza che a rendere più acido il tono del volume ci sia l’astio per il vecchio timoniere, reo di aver lasciato la guida ai figli, Mathias e Peter (definito nel volume «un razzista incompetente»).
In realtà gli affari del miliardario venuto dal freddo non sembrano essere stati intaccati dalle vecchie accuse di aver fatto parte di un gruppo filo hitleriano nel 1942. Lui continua la sua vita all’insegna della parsimonia (in casa avrebbe mobili Ikea, alcuni vecchi di anni), nonostante il patrimonio da 50 miliardi di dollari. Dopo quelle accuse però dovette scrivere una lettera di scuse a tutti i dipendenti ebrei.
Anche per le grandi aziende, dunque, il ruolo del singolo, dei rapporti umani, dei sentimenti perfino, può pesare sul business. Alla fine, però, si ricasca sul denaro. Come nel caso dei supermercati Pam, ultimi protagonisti di queste 24 ore nere del capitalismo.
La crisi finanziaria? A volte pesa meno di quella di nervi.
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