Commedia all’italiana, il Paese va in piazza

Con il "Divorzio" di Pietro Germi 50 anni fa si apriva una lunga stagione che ha raccontato (e a volte indirizzato) il costume di un popolo. E oggi tocca a Virzì, Albanese e Zalone

Commedia all’italiana, il Paese va in piazza

«All’italiana» si può fare tutto. E siccome l’arte di arrangiarsi è il gene dominante del nostro patrimonio, si può fare soprattutto la commedia, un genere che si arrangia (anzi, arrangia nel senso musicale del termine, toccando ogni corda spettacolare) con tutti i generi e che quindi è il genere per eccellenza. D’altra parte, se i francesi, nostri principali concorrenti in materia, hanno avuto la Comédie humaine di Balzac, un prodotto eccellente, nessuno può negarlo, noi abbiamo avuto la Commedia di Dante, quindi... partiamo avvantaggiati.

Nel cinema, la data di nascita ufficiosa della «commedia all’italiana» risale a 50 anni fa, al Divorzio all’italiana di Pietro Germi. E oggi, dopo mezzo secolo in cui ne abbiamo viste di tutti i colori, questa bella signora un po’ «rosa» e un po’ «gialla», un po’ «noir» e un po’ «sexy», un po’ «sociale» e un po’ «erotica», fa ancora girare la testa al pubblico e ai critici. È vero, i suoi due principali corteggiatori assurti, pellicola dopo pellicola, al rango di mariti, Dino Risi e Mario Monicelli, hanno ormai traslocato fra i più, ma lei è ancora in forma, anche senza ricorrere alla chirurgia estetica, con La prima cosa bella di Virzì candidato all’Oscar, con Benvenuti al Sud di Miniero che ha fatto boom, con giovani o meno giovani virgulti tipo Checco Zalone e Antonio Albanese sulla rampa di lancio.

In cinquant’anni l’aurea medietas della sua cifra e del suo lessico ha accompagnato, commentandola e a volte persino indirizzandola tramite i dettami del costume, la vita del Paese. Ne ha portato in primo piano la meschineria e il perbenismo (Signore e signori), la smargiassa drammaticità (Il sorpasso), le maschere derivate da una commedia dell’arte nipote di Carlo Goldoni e sorella di Ettore Scola (Mario, Maria e Mario) e Antonio Pietrangeli (Io la conoscevo bene). La Signora Commedia si è fatta beffe dei politici e della Chiesa, degli status symbol e della famiglia, dei medici, degli operai, dei giornalisti, financo degli attori chiamati a darle corpo. Ha preso in giro, addirittura, l’amore e la morte, con il sarcasmo del riso amaro (La voglia matta) e la violenza dei deboli (Un borghese piccolo piccolo). È sopravvissuta al centrosinistra e al terrorismo, all’edonismo e alla crisi dei valori, ai conflitti generazionali e all’incomunicabilità. È infine entrata in punta di piedi nel nuovo millennio mandando in avanscoperta, a sondare il terreno dei gusti caserecci e delle ossessioni tutt’altro che magnifiche una schiera di comici (grevi o lievi all’occorrenza) assemblati nei cosiddetti «cinepanettoni».

Ma, volgendo lo sguardo al passato e uscendo dalla pasticceria della premiata ditta De Sica&Boldi&Salemme e Associati, come non ricordare i... cineombrelloni sotto i quali troviamo, per esempio, un Enrico Maria Salerno e una Sandra Milo (L’ombrellone, appunto); o le cinefabbriche dove sudano e smadonnano il Giancarlo Giannini di Mimì metallurgico ferito nell’onore o il Gian Maria Volontè di La classe operaia va in paradiso; o i cinemigrati come il Nino Manfredi di Pane e cioccolata? E il sesso in tutte le sfumature, dal pruriginoso al deviante, dalla coppia aperta alle solitudini chiuse nel bozzolo dell’emarginazione?

Perché il segreto del fascino della Signora Commedia consiste proprio in questo: nel non avere segreti, nel mettere tutto in piazza. E la piazza, in fondo, è una sola, grande piazza, in cui si manifesta contro il governo e si spiano i vicini di casa, si vanno a cercare i figli fuggiti di casa e ci si siede, ai tavolini di un bar, per tirar sera. Una piazza in cui convengono spontaneamente, attratti dal comunitarismo caciarone e provinciale, i nostri vecchi padri: c’è Boccaccio con la commedia degli equivoci; c’è Verga con il suo verismo interclassista; c’è Pasolini con la rabbia e il disincanto proletario... Tutto passa e tutto resta, in bianco e nero e a colori, mentre la ruota della «pizza» gira nel proiettore e gli effetti speciali sono soltanto un accessorio buttato lì per caso.

Da Comencini ai Vanzina e da Lattuada a Neri Parenti, i commedianti all’italiana non hanno dovuto far altro che mettersi in mezzo alla Piazza Italia, e osservare il gran teatro di un mondo piccolo e, se vogliamo, pure antico, dove le buone cose di pessimo gusto risciacquano in Arno le pretese

della modernità di stare al passo con i tempi. Il copione e la sceneggiatura sono scritti da secoli, per filo e per segno, nel diario intimo di un Paese in cui la situazione è sempre stata grave. Ma, per carità, mai seria.

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