Il comune senso della morte

Con il romanzo «La parte buia del giorno» l’esordiente autrice statunitense s’inserisce nel filone oggi in voga negli Usa: quello dei «mourning book», libri scritti per elaborare un lutto

È davvero curioso, ma non più curioso della vita stessa, in fondo, che due romanzi autobiografici usciti in questi giorni in Italia, entrambi bestseller nei Paesi di riferimento, La parte buia del giorno, dell’esordiente americana Alison Smith (Mondadori) e Una vita francese del giornalista e scrittore di Tolosa Jean-Paul Dubois (Rizzoli) abbiano lo stesso sconvolgente inizio: la notizia della morte improvvisa di un figlio arriva in una tranquilla famiglia borghese, americana la prima, francese appunto la seconda. In entrambi i libri la morte non è solo un incipit letterario, è anche un inizio reale.
Nel romanzo di Dubois, Vincent, 10 anni, muore di peritonite il 28 settembre 1958, lo stesso giorno dell’adozione della Costituzione della Quinta Repubblica e così si avvia il racconto di mezzo secolo di storia francese: il narratore-protagonista Paul in quel momento ha otto anni. La narratrice-protagonista de La parte buia del giorno (Mondadori, pagg. 360, euro 16, traduzione di Stefania Bertola), Alison, ha invece quindici anni quando gli agenti di polizia arrivano in casa, alle sette del mattino. Ma la morte del fratello Roy, qui, diverrà il cardine dell’esistenza di Alison, oltre che della narrazione, e la scrittura sarà il modo per elaborare il lutto, come è tipico dei mourning book che tanto successo stanno avendo negli Stati Uniti, come ha dimostrato il National Book Award attribuito al memoir sul lutto familiare The Year of Magical Thinking di Joan Didion, uscito lo scorso ottobre.
Alison ricorda continuamente piccoli dettagli, che dissemina in tutto il libro, dettagli che rendono il dolore, provato ormai vent’anni fa, così presente da ferire prima di tutto i sensi. Ricorda i rumori: il ticchettio della pioggia e lo scroscio dell’acqua dalle grondaie. E ricorda quell’odore così particolare, emanato dagli agenti. Odore di compassione: «Signora Smith, c’è stato un incidente». Roy, diciotto anni, con cui Alison passa talmente tanto tempo che la madre li chiama con un unico soprannome, «Alroy», non c’è più. Per Alison la tragedia segna all’apparenza una fine: vive in una piccola comunità cattolica del Massachusetts dove la presenza di Dio è tangibile come le auto o la forza di gravità e per lei fino a quel momento era stato naturale parlare con Gesù. Perciò, appena dopo la morte di Roy, va nel bagno al piano di sopra, dove può star sola, e chiede a Gesù: «Dov’è Roy?». Gesù è lì, seduto sulla vasca, ma nemmeno la guarda e a un certo punto si alza e se ne va.
È la fine della fede, «la rimozione di un grande dono», del principio organizzativo della sua esistenza: i suoi genitori troveranno conforto nell’elaborazione di una serie di dolorose negazioni e rituali privati. Alison invece tenterà di distruggersi. Attraverso l’anoressia: «Offrivo il mio cibo a Roy e mi nutrivo del suo ricordo, invece». Attraverso la rievocazione fantasmatica e il tentato suicidio: si reca sul luogo dell’incidente, alle 5,55 del mattino, la stessa ora della morte di Roy, e aspetta che arrivi una Dodge blu a travolgerla. Poi, però, cede alla vita: l’amore per una coetanea, Terry, che la stimola intellettualmente proprio come faceva suo fratello. Terry, l’artista, che preferisce Colette e Saffo a Jane Austen, che le fa scoprire la piscina segreta delle suore della scuola, che le si avvicina nel silenzio della notte, mentre i genitori dormono. E grazie a Terry, Alison desidera di nuovo, è di nuovo viva.
«Le lesbiche bruciano all’inferno» è la condanna di sua madre, nella cui buona fede Alison crede ciecamente: «Voleva salvarmi dalla dannazione eterna e da un danno psicologico permanente», dichiara nelle sue interviste la giovane rivelazione adorata da illustri colleghi come Dave Eggers, osannata dal New York Times e da Oprah Winfrey, amata dai lettori che le dichiarano di aver consegnato loro un nuovo vocabolario per esprimersi con le proprie madri, magari dopo aver avuto un lutto familiare o dopo aver scoperto la propria omosessualità. «E forse avevo bisogno che mia madre mi dicesse quelle cose. Perché è così, cercando di capire se per caso avesse ragione lei, che ho iniziato a farmi domande su di me e sul mondo cattolico in cui vivevo».
Ed è così che Alison, che ora vive a Brooklyn, ha iniziato anche ad elaborare il lutto: ha frequentato le colonie artistiche di Yaddo e MacDowell, ha scritto i suoi primi racconti per McSweeney’s e ha iniziato questo suo primo romanzo, il cui titolo originale, Name all the animals, è uno dei passi del Genesi preferiti da suo padre.

Ci ha messo sei lunghi anni per finirlo e per passare dalle ottocento pagine della stesura iniziale alle trecento circa finali: «Solo il terzo anno - dice Alison - ho capito che il mio dolore era importante quanto quello dei miei genitori. E ho iniziato a descriverlo. Imparo lentamente».

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