Pietro Mancini
La presunzione di innocenza e il garantismo dovrebbero valere per tutti e, quindi, anche per l'ex assessore regionale siciliano Davide Costa, sbattuto nel carcere palermitano di Pagliarelli come un pericoloso boss. Ma era proprio indispensabile la misura cautelare per un deputato, indagato da più di un anno e che, avendo da tempo manifestato la volontà di ripresentare la sua candidatura all'assemblea regionale, certo non aveva intenzione di lasciare la Sicilia? Sarebbe significativo se i capi del partito di Costa, ovvero Casini, Follini e Cesa, decidessero di far sentire la loro autorevole voce, non certo entrando nel merito delle accuse, ma almeno rinnovando la loro amicizia all'esponente dell'Udc, l'ennesima e certo non ultima vittima del concorso esterno in associazione mafiosa, quel famigerato «reato di chiacchiera», di cui da tempo è stata chiesta, invano, l'abrogazione.
Ha provocato, a margine dell'arresto dell'onorevole Costa, legittimo sconcerto e ha sollevato le proteste di numerosi parlamentari, anche dell'opposizione, la diffusione di alcune intercettazioni di conversazioni telefoniche dell'indagato, nelle quali è spuntato, tra gli altri, il nome del presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, pur del tutto estraneo all'inchiesta, avviata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo sul dirigente della formazione centrista. Il deputato dei Democratici di sinistra Siniscalchi, che è anche un noto avvocato, ha adombrato «responsabilità penali», e non solo disciplinari, su cui dovrebbe far luce il Consiglio superiore della magistratura, nella diffusione alla stampa del nome del numero uno di Montecitorio.
Le norme, in effetti, espressamente, vietano che negli atti delle istruttorie penali si possa far riferimento a terzi, e men che mai a parlamentari, se costoro non hanno alcun titolo nei fatti oggetto di indagini. Un episodio su cui occorrerebbe, presto e in modo trasparente, diradare tutte le ombre e i sospetti.
Nei mesi che ci separano dalle elezioni per il rinnovo dell'Assemblea regionale, che probabilmente precederanno le politiche, in Sicilia, si avverte, forte, l'esigenza di una giustizia serena e non schierata, come in passato. Sarebbe molto inquietante se tornasse in auge, nelle Procure e nei tribunali siciliani, la criminalizzazione di tutti i politici dell'area di governo e la demonizzazione delle persone, con accuse basate, per lo più, su insinuazioni, voci, testimonianze indirette, illecite intercettazioni telefoniche, rivelazioni a orologeria di criminali pluriomicidi, interessati a lucrare dallo Stato soldi e benefici. Si sono già sprecate ingenti risorse e si è perso tempo prezioso, nella lotta alla mafia, imboccando, negli anni Novanta, la scorciatoia del giustizialismo e scegliendo di delegittimare, di «mascariare», come si dice a Palermo e dintorni, di mafiosità l'avversario politico.
L'auspicio è che le manette a Costa non inaugurino il ritorno a quel deprecabile modo di far politica attraverso il sistema giudiziario, bocciato e avversato sempre da Giovanni Falcone, così come le correnti «militanti» e «resistenti» della magistratura, trasformate in cinghie di trasmissione della politica.
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