Cultura e Spettacoli

Conti, narrare la vecchiaia senza pietà

«Il tramonto sulla pianura»: uno dei libri migliori della stagione. Personaggi e sentimenti perfetti

Chi sarà mai il velenoso Virgilio che ci accompagna nella villa (la parola in realtà dissimula un ospizio, per quanto di lusso) allestita da Guido Conti per Il tramonto sulla pianura (Guanda, pagg. 404, euro 16,50)? Di lui sappiamo poco: si chiama Eugenio e dalla sua esistenza in perenne bonaccia gocciolano nausee da controra; ha sempre vivacchiato di stenti; ha abbandonato la moglie anni addietro e si è rifiutato, accampando ogni giorno una scusa diversa, di andarla a visitare mentre agonizzava. Ora che è morta non ha scelta: è solo un vecchio malvissuto senza amici, odiato dai parenti e sull’orlo della rovina. Tanto che il figlio, per toglierselo dai piedi, lo persuade a entrare in una casa di riposo. L’ingresso nella villa, al quale non può sottrarsi, è peraltro solo il frutto di una coincidenza: lì viveva la moglie, e poiché la retta era stata pagata per tutto l'anno sono disponibili tre mesi di «villeggiatura» gratis. Che siano le cariatidi dell’ospizio a sorbirsi quella carogna, il suo umorismo dry e soprattutto le frequenti esplosioni di cattiveria che alludono a un torvo e irrisolto collaborazionismo con il male. Perché Eugenio è davvero un fiancheggiatore della morte; uno spettatore di tragedie, per intenderci, le cui sulfuree irrisioni mascherano un apprezzamento di fondo per il muro che uccide l’automobilista distratto.
Se fuori del comune, per l’indole efferata e la grande ambizione, è l’intero romanzo, che non si tarda molto a festeggiare come uno dei migliori delle ultime stagioni, i personaggi che popolano Il tramonto sulla pianura sono addirittura sorprendenti e il loro istrionismo minatorio strappa l’applauso a chiunque abbia conservato il gusto per le asserzioni non fintamente contundenti, per la capacità di zittire gli spacciatori di illusioni a buon mercato. Conti è bravissimo a innescare il gioco crudele che consiste nel dar vita a un mondo esentato dai doveri del quotidiano e tuttavia manifestamente concentrazionario; se questo era l’obiettivo, quale palcoscenico preferibile a un ospizio?
Dietro il monocolo viola del Duca (indimenticabili gli sbuffi e i gorgoglii della sua retorica, non meno dei suoi eleganti completi color gelato), nelle goffe poesie del poeta Frusta, o infine tra le pagine del registro in cui il direttore della villa seleziona con chissà quali criteri coloro che avranno il privilegio, sì, proprio il privilegio di vivervi, noi percepiamo la volontà luciferina di tenere a bada le pompe consolatorie dell’amore, della compassione, di tutto ciò che ci vieta di smaniare, di agitarci troppo. Questi vecchi, di fronte alla morte, non hanno certo la dignità di un samurai: vi preferiscono un genere di eroismo diverso, sgradevole e sordo. Eppure né il loro spietato sarcasmo né l’aver seppellito a ciglio asciutto la misericordia verso il prossimo impediscono di sperare in un segno della loro umanità; al contrario, ci sporgiamo su queste pagine come sul buio di uno schermo radar, attendendo l’elemosina di un’epifania. Conti sembra essersi fatto un punto d’onore nel non soffocare il tema della vecchiaia sotto l’enfasi balsamica, biblica e rilkeana, della vita che può serenamente estinguersi perché «compiuta», esausta. Né è caduto nella tentazione opposta di trasformare Eugenio in un personaggio titanico, portatore di un tormento lancinante ma a suo modo riuscito. La ferita doveva rimanere aperta. Ma allora dove si è nascosta, la pietà? Forse attorno alla pagina, mai su di essa.

È la macchia chiara sulla parete dalla quale è stato rimosso il quadro.

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