Pace o guerra? Due giorni dopo il bombardamento nordcoreano all'isola di Yeonpyeong, che ha fatto salire alle stelle la tensione in Estremo Oriente, la «politica del rischio calcolato» continua a dominare la scena coreana, ma con una novità sostanziale che complica i giochi: la Cina, che in un primo tempo sembrava disposta ad allinearsi alla comunità internazionale, pressoché unanime nel condannare l'attacco, fa ora il pesce in barile, e manifesta addirittura preoccupazione per l'esercitazione congiunta che Stati Uniti e Corea del Sud inizieranno domenica nel Mar Giallo: «Seguiremo con attenzione i movimenti della flotta Usa, ci opponiamo alle provocazioni militari in ogni forma e invitiamo tutte le parti in causa ad esercitare la massima moderazione» è la nuova posizione di Pechino. Per sottolineare la sua «neutralità», la Cina ha anche rinviato sine die una visita del suo ministro degli Esteri a Seul, che era in programma per oggi, e non ha per ora risposto alle sollecitazioni del presidente coreano perché eserciti una influenza moderatrice su Pyongyang. L'unico segnale positivo venuto dai cinesi è che si sono dichiarati a favore della ripresa del negoziato a sei, con Stati Uniti, Giappone, Russia e Corea del Sud, per indurre la Corea del Nord a rinunciare al suo arsenale nucleare.
Il cambio di rotta cinese - che ancora una volta ha dimostrato la sua ambiguità - non indurrà certamente gli Stati Uniti a sospendere le manovre (in programma da tempo) che lo stesso Obama ha voluto presentare come un gesto di sostegno alla Corea del Sud. Con l'invio in zona della portaerei «George Washington», dei suoi 5.700 marines e 85 aerei da combattimento, l'America non ha in effetti lasciato dubbi sulla sua disponibilità a difendere l'alleato da una eventuale aggressione del Nord. Ma gli Stati Uniti sono anche i più interessati a evitare un conflitto su vasta scala, e mentre fanno arrivare in zona la flotta cercano da un lato di sdrammatizzare la situazione e dallaltro di adire le vie diplomatiche. In questa ottica, fonti americane hanno cercato di ridimensionare la portata dell'attacco, attribuendolo alla necessità del leader Kim Yong-Il di dare una dimostrazione di forza nel momento in cui sta cercando di imporre il terzogenito Kim Yong-Un come suo successore. Ma Pyongyang ha respinto la proposta del generale Sharp di aprire un canale tra gli opposti comandi militari al fine di allentare la tensione. «Non siamo interessati -è stata la risposta- e risponderemo con nuovi attacchi a qualsiasi provocazione».
La situazione è ulteriormente complicata dalle dimissioni del ministro della Difesa della Corea del Sud, Kim Tae-Yong, accusato di essersi fatto cogliere impreparato dall'attacco e di non avere predisposto una adeguata difesa delle cinque isole situate appena a sud del conteso confine marittimo. Kim era già stato contestato in marzo, in occasione dell'affondamento della fregata Cheonan, ma adesso è tutta la sua politica a essere sotto processo: infatti, il presidente Lee ha subito ordinato un potenziamento delle guarnigioni insulari e adottato un linguaggio molto più «muscolare» verso il Nord, cambiando le regole dingaggio delle proprie forze armate; con ovvie reazioni dell'avversario.
Allora, pace o guerra? Le possibilità di evitare un conflitto più ampio rimangono in piedi, ma la difficoltà di capire le reali intenzioni del regime di Pyongyang rende tutto più difficile. Maestro nell'esercitare l'arma del ricatto, agisce spesso in base a logiche imperscrutabili; e anche stavolta nessuno ha ancora capito né fin dove si vuol spingere, né dove vuole arrivare.
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