«Il rischio assunto dal Comune è estremamente significativo». Non nell’immediato, ma «per la gestione delle future risorse dell’Ente». Settanta pagine. La delibera della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti getta un’ombra sulle operazioni finanziarie concluse da Palazzo Marino. Per la «scarsa cautela» e la «garanzia» che sono tutte dalla parte degli intermediari, perché sono state realizzate «con determinazioni dirigenziali » e non con «una delibera del Consiglio o di Giunta», e per le clausole «interamente regolate dalla legge inglese». È il bullet bond trentennale da 1,6 miliardi, che «vincola risorse di generazioni future».
L’invito, dunque, è di «adottare i possibili interventi correttivi» per rimediare ai «profili di criticità» riscontrati dai magistrati. Meglio rinegoziare i parametri, secondo la Corte, che ipotizzare l’estinzione del derivato. Con urgenza, se è vero che «il rischio finanziario a carico del Comune è andato crescendo». Così, già nel 2007, il contratto derivato ha smesso di essere conveniente per le casse pubbliche: il valore negativo del mark to market oggi è pari a 290 milioni. E tutto deriva dall’obbligazione non rimborsabile anticipatamente di 1,68 miliardi della durata di 30 anni, del giugno 2005. Scadenza, 2035. E non, come previsto prima delle modifiche, tra il 2013 e il 2025.
Le banche
Quattro gli intermediari finanziari: Jp Morgan Chase, Depfa, Deutsche bank e Ubs. Banche arrangers scelte con una «procedura di gara caratterizzata da rapidità e semplicità». «Modalità che sollevano alcune perplessità poiché, anche in considerazione dell’ammontare del debito che l’ente intendeva ristrutturare e dei vincoli che quest’attività potrebbe comportare per gli esercizi futuri, sarebbe stato più opportuno che venisse definita l’operazione in tutti i suoi aspetti, e solo in un secondo momento venisse posta in gara l’intera operazione». Inoltre, se da un lato «non risulta un’analisi condotta» dall’amministrazione sulla «valutazione di convenienza», quest’ultima è stata «effettuata dalle stesse banche che hanno proposto l’intervento», configurando «la possibile esistenza di un conflitto di interessi». Ancora, «Deutsche bank e Ubs negli ultimi mesi hanno omesso ogni comunicazione» sull’evoluzione del mercato, «non fornendo il valore del mark to market, nonostante le formali richieste» avanzate dal Comune. «Si tratta - sottolineano i magistrati - di un comportamento che non sembra avere alcuna giustificazione e che deve essere stigmatizzato». Infine, «l’intero rapporto contrattuale è regolato dalla legge e dalla giurisdizione inglese», così che Palazzo Marino - in caso di contenzioso - «non potrebbe adire la giustizia italiana» ma quella d’oltremanica, «con maggiori oneri, oltre che difficoltà di conoscenza della legislazione sia sostanziale che processuale».
L’ombra del crac
«Il rischio assunto dal Comune - spiega dunque la Corte - è estremamente significativo». Perché per il fondo di ammortamento «in cui confluisce il capitale che dovrà essere restituito ai possessori delle obbligazioni non è previsto deposito su un conto dell’Ente». Così, Palazzo Marino «non ha alcuna tutela in caso di insolvenza o inadempimento dell’intermediario». Ed è evidente «l’asimmetria contrattuale» tra Comune e banche, «posto che non è stata prevista alcuna forma di garanzia per l’Ente» sull’«effettivo pagamento delle somme dovute dalla banche al termine del contratto, momento in cui l’ente dovrà procedere alla restituzione del prestito agli obbligazionisti».
Le modifiche
Il contratto originario è stato integrato e modificato in sei occasioni. E «non risulta sia stata svolta alcuna specifica valutazione sulla convenienza economica e sull’incidenza dell’operazione». Così, mutano anche le condizioni a carico del Comune. «Le nuove clausole - si legge nella delibera - hanno comportato un aumento del rischio finanziario a carico dell’Ente». E nemmeno «con la particolare forma di garanzia (credit default swap Cds)» prevista da Palazzo Marino «vengono totalmente eliminati i rischi dell’operazione». Cambiano i parametri, non la sostanza. Il pericolo di collasso, cioè, non è mai a carico degli intermediari, ma sempre dell’Amministrazione.
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