Così il duce dei serbi di Bosnia precipitò Sarajevo nell’inferno

Nel 1991 partecipava in smoking a un ricevimento con musulmani e croati: pochi mesi dopo la guerra

Smoking nero con fiocchetto impeccabile e ciuffo ribelle: è il ricordo indelebile di Radovan Karadzic, poco prima che Sarajevo precipitasse all’inferno. Era il 1991 e il duce dei serbi di Bosnia partecipava a un ricevimento all’Holiday Inn della capitale bosniaca. Nella grande hall c’erano anche il leader musulmano Aljia Izetbegovic e quello dei croati di Bosnia. Tutti in smoking, sorridenti, con un bicchiere di Martini in mano, ma non si rivolgevano mai la parola. Pochi mesi dopo scoppiò la spaventosa guerra etnica nel cuore dei Balcani. Il primo a farne le spese fu proprio l’Holiday Inn. Una cannonata serba aprì una voragine da una parte all’altra dell’albergo.
Nella hall del ricevimento si pativa un freddo cane e le stanze senza acqua erano frequentate solo da giornalisti di guerra. Per arrivarci bisognava fare a zig zag fra i tiri dei cecchini lungo la via marshala Tito. Karadzic si era ritirato a Pale, dietro le colline di Sarajevo dove si andava a sciare. Trentamila anime con una piccola chiesa ortodossa. L’ex psichiatra votato alla causa serba si insediò in una villetta senza pretese, perennemente assediata dai giornalisti. Una decina di chilometri più in là stava pianificando la guerra etnica il colonnello Ratko Mladic, promosso generale sul campo. Il suo quartier generale si trovava nel bunker atomico di Han Pjesak, voluto da Tito. Erano questi i gangli decisionali della Republika Srpska, metà della Bosnia che non voleva saperne di musulmani e croati, con Karadzic presidente.
Mladic si faceva vedere raramente, ma Radovan amava i riflettori. Per parlarci ti beccavi un paio di brutali spintoni dalle guardie del corpo con le spalle simili ad armadi, che lo circondavano. Quando capiva che eri un giornalista si fermava a scambiare un paio di battute da tribuno. Per annusare l’aria bastava osservargli i vestiti. Se indossava abiti blu o grigi, solitamente firmati, ma con cravatte improponibili, era il momento della diplomazia. Se invece il ciuffo ribelle di Pale si presentava in mimetica voleva dire che aveva preso il sopravvento la linea dura di Mladic, che non a caso verrà soprannominato il «macellaio» di Srebrenica.
Ogni tanto Karadzic convocava i giornalisti per qualche dichiarazione di fuoco. Sul tavolo non mancavano mai orribili caffè, succhi di arancia senza sapore e l’inseparabile rakja, la grappa serba che ti fa esplodere lo stomaco. Alla fine proponeva un brindisi al futuro della Grande Serbia con l’usuale «zivelj», il cin cin locale.
L’ossatura del potere a Pale era costituito dalle donne di Karadzic. L’amata moglie Liljana, che attraverso la presidenza della Croce rossa serba faceva arrivare colonne di aiuti. Eminenza grigia della famiglia, la signora Karadzic, aveva un filo diretto con la chiesa ortodossa. Anche Sonja, la bruttina e troppo in carne figlia del «presidente», aveva un ruolo alla guida di radio Pale. Nonostante il fisico indossava magliette rosa confetto con poco invitanti porcellini. Alla fine si è innamorata di una guardia del corpo del padre. Il segno distintivo di Karadzic, che aveva il carisma per aizzare le folle, erano le tre dita. Il simbolo serbo che coniuga Dio, patria e famiglia.
La pace di Dayton del 1995, che ha chiuso il conflitto, è stato l’epitaffio della sua insanguinata carriera politica. Il padrino Milosevic lo abbandonò al destino di ricercato per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Due anni dopo Karadzic sognava ancora di restare in sella. Non era più presidente, ma aveva ancora un ufficio nell’ex fabbrica per carri armati alla periferia di Pale. Una segretaria di bella presenza e come attendente un generale in borghese. Tutti sapevano quando Karadzic si trovava in ufficio. Bastava guardare nel parcheggio se c’era l’immancabile Mercedes nera e blindata con i finestrini oscurati. Lo incontrai per l’ultima volta nel maggio del ‘97, al secondo piano della fabbrica Koran, dove l’unico segno di autorità erano i corridoi spaziosi e i tappeti rossi. Arrivò spalancandosi in un sorriso. Poi confermò subito: «Come vede sto bene, è tutto ok». Completo grigio, rasato come sempre e solito ciuffo ribelle respinse le accuse di crimini di guerra, come fa ancora oggi. I fanti di Marina del San Marco erano a meno di cinque chilometri.

Li comandava il generale Mauro Del Vecchio, che oggi siede in parlamento. Facevano finta di non vedere «Mister K», come lo chiamavano in codice. Per anni ha goduto di coperture inglesi e francesi, che gli hanno permesso di sfuggire a decine di blitz per catturarlo.

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