Per gentile concessione dell'editore La nave di Teseo pubblichiamo in anteprima un brano da Scene di Abel Ferrara (pagg. 240, euro 22), memoir esistenziale e cinematografico del regista, che esce in contemporanea con gli Stati Uniti.
L'ufficio di Matty Ianniello era a Manhattan, in una delle vie tra la Cinquantesima e la Sessantesima che incrociavano la Sesta Avenue a midtown, in uno degli isolati con gli affitti al metro quadro più alti del mondo. Nel 1975 Matty il Bestione, come lo chiamavano, spadroneggiava a midtown. La scena degli strip club era in pieno rigoglio, così come i cinema a luci rosse. Questo era il lato legale. Ma controllava anche tutti i salotti per il gioco d'azzardo di alto livello, i furti negli appartamenti, le truffe finanziarie, le carte di credito false e qualunque altro traffico illegale vi possa venire in mente. Come dice Walken in King of New York: "Vendi un centesimo di roba nel parco? Voglio la mia parte". Ed era così che andava in qualsiasi faccenda losca avvenisse a midtown, bisognava mettersi in società con Matty o erano guai. Era l'età dell'oro per questi personaggi, dieci anni prima di Giuliani e di qualsiasi vero giro di vite delle autorità, e qualche anno dopo Il padrino di Coppola.
Matty non era un semplice mafioso, non arrivavi dove era arrivato lui soltanto spaccando la testa alla gente, ci voleva carisma e cervello fino, oltre alla disponibilità a rispettare il codice d'onore. I tizi davvero temibili erano i reduci che arrivavano sulla scena con tutte le belle cose che avevano imparato in guerra, come usare gli esplosivi e maneggiare professionalmente le armi. Matty era stato un eroe della Seconda guerra mondiale, prestando servizio nel teatro del Pacifico, e aveva le sue medaglie al valore a dimostrarlo. A presentarci fu mio padre, che in un'altra vita era stato suo amico. Stanco di vedermi tentare invano di convincere una sfilza di potenziali finanziatori, il mio vecchio pensò fosse arrivato il momento di farmi conoscere la gente che avrebbe potuto davvero aiutarmi.
Il sontuoso atrio era presidiato da portieri in divisa e l'ascensore mi portò in un lungo corridoio tirato a lucido che conduceva a un'imponente porta di mogano. Al di là di essa c'era un ufficio che sembrava appartenere a un altro edificio, con qualche mobile di seconda mano in quella che poteva essere una sala d'attesa e, dietro un bizzarro bancone di vetro, una donna truccatissima che interpretava il ruolo della segretaria. Erano le cinque del pomeriggio, l'ora in cui apriva il loro ufficio, proprio mentre nel resto del palazzo tutti si preparavano a tornare a casa. La donna mi disse di entrare e aspettare nel suo studio. Nessuno pronunciò il suo nome.
Lo studio consisteva in un grande tavolo senza niente sopra, con due sedie per lato e uno schedario dimenticato in un angolo. Dopo qualche minuto Matty entrò e si sedette di fronte a me. Somigliava a Luca Brasi del film di Coppola e attaccò discorso con voce così profonda e roca che se non fossi cresciuto sentendo quella parlata non avrei capito una parola. Anni dopo, in quello stesso ufficio, mi avrebbe consegnato l'atto di accusa (o avviso di garanzia?) dell'Fbi nei suoi confronti, pagine e pagine di trascrizioni di intercettazioni, chiedendomi: "Cosa dicono che ho fatto?". Leggere ciò che qualche americano medio dell'Fbi pensava di aver sentito grazie a quella cimice fu uno spasso, se non fosse che Matty finì in prigione per questo.
All'epoca però nessuno stava per metterlo dietro le sbarre, nessuno ci stava neppure provando. Seduto su quella sedia di fronte a me, Matty non aveva un pensiero al mondo. Era un tipo corpulento, non grasso ma grosso. Se bisognava tirar fuori le pistole, per lui non c'era problema, ma poteva cavarsela anche senza. Era astuto e scafato, conosceva a fondo la vita di strada. Più avanti avrei capito che aveva il dono di inquadrare le situazioni, elaborare un piano e metterlo in atto nello stesso istante. Ascoltò il mio discorsetto, che in sostanza consisteva nella richiesta di soldi per il mio nuovo film, mi disse di tornare una settimana dopo e mi avrebbe fatto sapere.
Quando sei in quella fase in cui vai in giro a chiedere denaro, ti basta qualche parola vagamente incoraggiante. Ancora oggi riesco a trasformare un "ti faccio sapere" nel conferimento di un Academy Award o due. Mark Twain disse: "Le cose peggiori nella mia vita non sono mai accadute". Be', neanche le migliori, potremmo aggiungere. Ma nel mio ramo ti aggrappi a qualunque cosa pur di convincerti che stai facendo progressi.
Tornai nell'ufficio di Matty e attesi di nuovo alla scrivania perfettamente sgombra. Sentivo delle persone che parlavano nell'altra stanza, i suoi soci in affari che avrei conosciuto in seguito, Benny Cohen, Robbie Margulies, tipi azzimati, con le unghie curate e i capelli tagliati con il rasoio. Matty entrò nella stanza, si sedette e mi spiegò la sua proposta. "Conosci Jerry Weintraub?". Jerry Weintraub era il manager di Frank Sinatra e un importante produttore di film ad alto budget a Hollywood. "Jerry ti porterà in aereo in California, ti darà cinquecento dollari alla settimana e tu lo seguirai in giro".
"Cosa intendi con seguirlo in giro?".
"Sai com'è, gli porti la valigetta, fai quello che ti chiede di fare". Questo era un grosso favore per il figlio di un vecchio amico, catapultarlo dal nulla nelle alte sfere del settore. Solo che io volevo girare un film, non seguire un tizio in giro, a prescindere da chi fosse. Lo ringraziai per l'offerta, ma ribadii che stavo cercando di raccogliere venticinquemila dollari per fare il film. In un momento di preveggenza, la qualità che lo distingueva dalla maggior parte degli altri, Matty disse: "Perché vuoi rovinare tuo padre?". Quindi si alzò, mi disse di aspettare lì e uscì. Venticinque minuti dopo entrò Franky C.
Franky era quello che chiamavano un tipo sveglio, e nei
successivi trentacinque anni sarebbe stato di volta in volta il mio manager, produttore e attore. Era qualcuno su cui potevo sempre contare quando ne avevo più bisogno.(Abel Ferrara, Scene. Memoir, La nave di Teseo)