Laura Novelli
Lui è un attore navigato intento a risollevare le sorti di una carriera ormai in discesa. Lei è unattrice fuori dal giro che sbarca il lunario a fatica portandosi dietro una triste storia di alcolismo. Un tempo si sono amati. Poi una serie di delusioni e tradimenti li ha divisi. Caso vuole però che si ritrovino sullo stesso palcoscenico: coprotagonisti di un dramma votato a trasformarsi - giocoforza - in un tumultuoso ritorno di fiamma.
Sono questi i personaggi intorno ai quali la francese Josiane Balasko (regista, attrice, autrice, sceneggiatrice di successo) costruisce la commedia Un grande grido damore, proposta ora da Maurizio Panici al Manzoni.
A ricoprire i ruoli di Hugo Martial e Gigì Ortega ci sono Pietro Longhi e Pamela Villoresi. Meritori innanzitutto di dare moderna vitalità a una trama se vogliamo prevedibile, malgrado ancorata a quella solida tradizione di testi divisi tra Arte e Vita che usano il «teatro nel teatro» per sviscerare fragilità e paure proprie di tutti gli esseri umani.
Ed è proprio questo sguardo «anfibio», rivolto sia ai sentimenti sia al teatro, ciò che permette a Panici di confezionare uno spettacolo nel complesso godibile, dove la Villoresi - brillante e ironica al punto da confermarsi attrice di raro eclettismo - assurge al rango di una primadonna (due volte tale, visto il ruolo che interpreta) senza la quale lingranaggio scricchiolerebbe un po. Con la sua dirompente entrata in platea, con i suoi cappellini improbabili, con la sua tenace animosità, questa infelice Gigì riempie la scena di una femminilità senza tempo, che non dimentica il dolore passato ma che sa pure perdonare. Alla sua morbida irruenza fa da contrasto la spigolosa boria di Hugo/Longhi: tipico «esemplare» di maschio risoluto ma infantile che poco a poco cede al ritrovato amore e - complici il paziente regista interpretato da Stefano Antonucci e la scaltra agente affidata a Gabriella Silvestri - fa pace in un colpo solo con il teatro e con il suo cuore. Siamo dunque alle prese con una riflessione sul «tempo perduto» e sulla forza delle passioni che intende fare anche luce su aspetti emblematici della professione teatrale, rispolverando la metafora della scena quale «specchio della realtà» e - soprattutto - rimarcando (se mai ce ne dimenticassimo) la natura estremamente vulnerabile degli attori.
Sembra, insomma, di rileggere Diderot quando descrive il doppio dialogo che due amanti/attori sostengono mentre recitano lo spettacolo di turno: appassionati e teneri nelle sonore battute della finzione; dispettosi e litigiosi nei toni sommessi delle pause. E alla fine trionfa sempre e comunque la vita. Quella vera.
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