La Casa Circondariale. Un luogo che, come certe poesie dimenticate, è intriso di una verità che il mondo fuori ha scelto di ignorare o, peggio, di incartare in una morale posticcia. Sono entrato in quel ventre di cemento per portare voci. Poesia, letteratura. Per intorbidire, forse, il silenzio grigio che si dice regni tra quelle mura. Ma il silenzio non esiste, mai. C'è solo un rumore costante, ovattato, il fruscio di centinaia di vite ridotte alla loro essenza più cruda, più infantile. È un brusio di fondo che sa di metallo e di passi trascinati, una vibrazione che senti nelle ossa prima ancora che nei timpani.
L'ingresso non è un ingresso, ma una progressione di negazioni. Un rito di spoliazione. Quattro portoni a grata metallica che si aprono e si chiudono con la chiave elettronica dei secondini e al posto del cigolio c'è il suono breve di una sirena. Ogni volta, un poliziotto penitenziario ci accompagna, i passi rimbombano nel corridoio col linoleum per terra. L'aula che ci ospita è un pugno in un occhio, coi suoi colorini smorti e le scritte a pennello "Libertà" sulle pareti. Una lavagna, un mobiletto con alcuni libri di testo senza copertina. Siamo più di trenta persone stipate in uno spazio concepito per la metà. Ci siamo io, che pretendo di essere la voce che legge, la divisa blu di un poliziotto, le loro facce che sono la mappatura del disagio italiano e mondiale. La luce al neon mi sbatte contro le sopracciglia. La finestra di fronte sfocia nel nulla, teste rasate o piene di capelli, le voci che non riescono a tacere, stringo continuamente mani. Questi incontri, però, hanno la loro liturgia. Ogni trenta minuti, tassativi, si fa la pausa sigaretta. Un'esigenza fisiologica, ma anche un atto di ribellione misurato, l'unico spazio di libertà negoziato con il sistema. Vederli alzarsi, quasi all'unisono, per quell'unica boccata di fumo acre e dolce, è come assistere alla resurrezione di un corpo collettivo che reclama il diritto di respirare male. Fuori, nella branda corta del corridoio, si accendono, parlano fitto in lingue che non capisco, o si limitano a guardare il muro, come fanno i bambini in punizione.
Ho letto loro Emily Dickinson, la sua clausura volontaria che qui diventa una clausura imposta. Una poetessa di una stanzetta del Massachusetts. E poi Thierry Metz, il manovale sollevatore di pesi, la crudezza del dire senza fronzoli che parla al corpo prima che alla mente. E Alberto Dubito, il writer e rapper, la cui voce, graffiata dal disagio della strada, entra forse con più immediatezza, perché ha lo stesso sapore della polvere dei loro marciapiedi. Ma ho fatto parlare anche Robert Walser, i suoi Microgrammi scritti su fogli di risulta. C'è un filo sottile che lega la segregazione volontaria degli artisti alla prigionia coatta degli esclusi, e quel filo è la solitudine.
Ma qui sorge il dubbio, quello che mi morde lo stomaco ogni volta che varco l'uscita: quello che facciamo oggi ha una sua forza propulsiva nella cultura e nella società italiana? O è solo un massaggio cardiaco a un cadavere, un modo per noi "buoni" di sentirci meno complici? Il carcere, per me, è apparso subito come la Grande Madre. Un mostro biblico, certo, ma anche un grembo protettivo, distorto. Questi uomini e queste donne, là dentro, tornano infantili. Perdono il peso, la responsabilità della scelta. Tutto è deciso, tutto è scandito da suoni che conoscono solo là dentro. La Grande Madre ti dà il cibo, il letto, il tempo. E in cambio si prende il tuo nome, la tua forza, la tua volontà adulta. Li vedo, a volte, nei gesti, negli occhi che cercano approvazione.
La composizione umana è il catalogo delle nostre fragilità territoriali. Ci sono diversi magrebini, soprattutto dal Marocco, occhi scuri e silenzi lunghi, che mi guardano con una diffidenza ancestrale. E poi i tunisini, spesso più giovani, irrequieti, con un fuoco nelle pupille che mi chiedo se sia rabbia o disperazione. Le donne rom, poche, sdentate, giovani, portano addosso una malinconia o una disillusione. Una donna pakistana col berretto in lana blu dice che non può scrivere perché non ha gli occhiali; si vergogna di dire che è analfabeta. E poi c'è Faith, la ghanese col sorriso che le spacca la faccia. Quando legge, ha una voce roca, profonda come il fondo di un buco. L'ultima volta ha messo un rossetto scarlatto e trascritto in inglese una poesia della Dickinson.
Un giorno, in uno di quei momenti di stallo tra una poesia e l'altra, il rituale si è rotto. Una delle volontarie, Silvia, ha compiuto un gesto che mi ha spiazzato, ma che era purissima, scomposta umanità. Ha tirato fuori dalla sua borsa, grande e informe come un sacco da viaggio, cioccolatini e biscotti e ha iniziato a distribuirli. Poi, quando ha visto che l'ordine formale era ormai compromesso, ha iniziato a lanciarli sui tavoli e per terra. Un attimo di silenzio attonito, poi il pandemonio. Gli adulti sono scomparsi, inghiottiti da un'onda di avidità infantile. Mani che si allungano, gomiti che si scontrano, un mormorio eccitato, quasi animale. Era un'immagine violenta e commovente. L'ho vista ridere, Silvia, con un'aria tra l'esausto e il divertito, come se avesse liberato una tensione secolare con un pugno di zucchero. Io, seduto al tavolo, provavo un disagio fisico, acuto. C'era un'energia fortissima in quell'aula, un campo magnetico che mi repelleva e mi attirava al tempo stesso. Non riuscivo a capire se era forza la loro, quella di resistere in quel luogo di sottrazione o se era solo fastidio il mio, di non poter penetrare la loro corazza, di essere lì come un turista etico. Ne ho parlato con Aurelio Picca, lo scrittore della Roma antica e del sacro. L'ho chiamato in una sera uggiosa, chiedendogli consigli su come non soccombere a quella pressione muta. Picca, con la sua voce baritonale, non ha esitato: "Là dentro bisogna essere duri, nudi, autorevoli". Mi è tornato in mente Vitaliano Trevisan, l'uomo del Nord-Est industriale, della nevrosi letteraria. Un suo amico, Pino Costalunga, mi raccontò che anche Trevisan si era avventurato in un'esperienza simile a Vicenza. Era andato a leggere Beckett. Il resoconto fu scoraggiante. I carcerati non lo avevano seguito. Forse perché l'assurdo della letteratura era troppo esotico rispetto all'assurdo quotidiano della cella.
Esco da quel luogo sempre con una patina grigia addosso, una stanchezza dell'anima. So che la poesia e la narrativa sono un'arma imperfetta. Non salva. Ma scalfisce. Forse. Quelle tre ore a settimana di letteratura, interrotti dai biscotti e dalle sigarette, sono una parentesi. Sbarrati e stipati, come le parole in un verso troppo denso. Quando i quattro portoni si richiudono, l'aria mi sembra più rarefatta.
Le rovine non sono solo i muri distrutti, ma le esistenze interrotte. La domanda che mi assilla, mentre cammino verso casa tra le polveri di Mantova, è sempre la stessa: quale sarà la prossima voce abbastanza nuda, dura e autorevole da poter reggere il peso di quell'energia?