Politica

Cossiga a Israele: D’Alema bifronte

Luca Telese

nostro inviato a Gerusalemme

Durante la sua conferenza all'università ebraica di Gerusalemme dice: «Ho chiesto al governo israeliano di poter venire nel vostro Paese a titolo personale e privato». E subito dopo aggiunge: «Come da prassi e da mio dovere ho chiesto al presidente del Consiglio del mio Paese il permesso di venire qui». A chi conosce Francesco Cossiga e il suo stile bastano queste frasi per capire il carattere di una missione informale con cui il presidente emerito raggiunge Gerusalemme e Tel Aviv in uno dei momenti più delicati per la diplomazia italiana in Medio Oriente. Cossiga è venuto accompagnato dagli uomini dell'ambasciata italiana, ma anche da un rappresentate della comunità ebraica come Alessandro Ruben. E al suo fianco c'è uno dei democristiani dalle mille vite e mille più una risorsa - Giancarlo Elia Valori - che all'università di Gerusalemme può vantare una cattedra che porta il suo nome, ed in questo Paese amicizie antiche, legate anche alla sua storia familiare (la madre è nell'olimpo dei «giusti» per aver salvato dall'Olocausto centro ebrei veneti, durante la seconda guerra mondiale).
Così non è assolutamente inconsueto che Valori accompagni Cossiga in un lunghissimo incontro con Simon Peres, numero due del Kadima, e prima leader storico del laburismo israeliano, uomo cardine della maggioranza di governo nel momento più difficile.
Quello che filtra, dopo due ore di colloquio a porte chiuse, che si svolge nel «Center of peace» della capitale israeliana è una grandissima attenzione per le mosse dell'Italia in Libano. Peres sapeva già dallo stesso Olmert che il primo ministro avrebbe chiesto a Prodi di assumere il comando della missione. Ma allo stesso tempo - anche se Cossiga si farebbe tagliare la lingua prima di ammetterlo - il leader del Kadima aveva grande curiosità di una valutazione sulle mosse del ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Cossiga dice solo: «Mi ha detto di salutare due persone: Giuliano Amato e Romano Prodi» (e chiunque noterebbe l'assenza del ministro degli Esteri). Ma secondo uno dei presenti al colloquio avrebbe aggiunto una frase ancora più interessante: «Gli americani mi hanno detto di non preoccuparmi per le sue posizioni». L'interrogativo sulle mosse di D'Alema, a dire il vero, il presidente emerito se lo è sentito rivolgere da tutti i suoi interlocutori, fino alla cena che si è tenuta in suo onore in un ristorantino del centro di Gerusalemme, presenti i rappresentanti della comunità ebraica italiana locale, l'ambasciatore uscente in Italia Ehud Ghol e quello entrante, Gideon Meir.
Ed anche per questo motivo che nella mattina di ieri (quando era già in Israele) Cossiga spiegava in televisione il nuovo corso della politica meriorientale di D'Alema a modo suo («È il miglior fico del bigoncio ed è anti-israeliano. Ma lo è anche perché così tiene con sè tutte le sinistre comuniste e post comuniste del governo») mentre davanti ai suoi interlocutori israeliani di massimo livello lo difendeva: «Sono suo amico personale, lo conosco come le mie tasche, credo che sia l'unico leader italiano che può aspirare ai massimi ruoli esecutivi e istituzionali». Non per un vezzo o per un minuetto, ma perché Cossiga crede che la politica «neo-andreottiana» di D'Alema possa avere un ruolo nelle geometrie complessissime della difficile rete diplomatica che si tesse in queste ore fra il Palazzo di Vetro, la Casa Bianca e Gerusalemme.
In Israele i notiziari danno rilievo alle dichiarazioni di Romano Prodi e alla sua richiesta di «un mandato chiaro» per la missione. E quello sul mandato dei caschi blu inviati tra gli hezbollah è un dubbio che sta scritto anche nei cuori di un Paese in guerra.
A Gerusalemme la vita in apparenza scorre come se nulla fosse, a pochi metri dal ristorante dove Cossiga conclude la sua missione passeggiano tranquilli i giovani «settlers» dei territori, ventenni riccioluti con il kalashnikov a tracolla.

E nella visita mattutina allo Yad Vashem il presidente emerito riscopre nelle radici della Shoah le ragioni del bisogno di sicurezza quasi ossessivo che il dibattito sugli errori di Thsal confermano.

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