«Via il costo degli stipendi dall’Irap»

Morandini: «Serve un atto concreto verso le piccole imprese. Al governo se ne parla, ma poi studiano nuove forme di prelievo»

«Via il costo degli stipendi dall’Irap»

da Roma

Presidente Morandini, sulla destinazione dell’extragettito il ministro Damiano ha messo le mani avanti: bisogna pensare al welfare perché le imprese hanno già avuto il taglio del cuneo.
«Non voglio partecipare a questo teatrino, parliamo di cose serie. La politica deve fare una fotografia della situazione congiunturale. Il mercato interno non è brillante e le esportazioni ci sono ma a sacrificio dei margini delle imprese. Su tutto questo si abbatte una fiscalità che a chiusura dei bilanci 2006 ho definito vergognosa e umiliante».
Il viceministro Visco ha detto che in materia di tasse «Montezemolo fa solo retorica», ma si è anche dichiarato pronto ad addolcire il prelievo sulle microimprese e l’imposta sulle società. Secondo lei, presidente dei piccoli industriali di Confindustria, si può avviare un dialogo?
«È inutile continuare a discutere sulle supposizioni, vogliamo vedere atti concreti. Dobbiamo mettere mano alla detassazione sulla produzione. Sono d’accordo sulla lotta all’evasione ma non si combatte facendo pagare sempre gli stessi. Dal 2005 al 2006 abbiamo avuto un incremento della pressione fiscale nei bilanci della nostra impresa. Ho una proposta: togliere il costo degli stipendi dall’imponibile Irap».
Si può parlare di riduzione della pressione fiscale se la sinistra radicale vede le imprese come grandi evasori?
«Non ci possiamo dimenticare che in Italia le imprese pagano le tasse anche su alcuni costi che sostengono. Se poi si vuole un Paese senza industrie, vuol dire che c’è qualcuno che ha un’idea geniale per farlo andare avanti lo stesso. Spero che in estate qualcuno, viaggiando, abbia visto cosa hanno fatto i Paesi che vogliono avere ruolo nell’economia globale: la Germania con la riduzione delle imposte, la Francia detassando gli straordinari o la Slovenia. L’industria è un punto di orgoglio per un Paese».
È d’accordo con il suo collega vicepresidente di Confindustria Bombassei che ha parlato di rischio-deindustrializzazione?
«Sì, è un rischio. Nelle nostre condizioni fare impresa in Italia è ai confini dell’incoscienza».
Che cosa pensa del progetto di armonizzare la tassazione delle rendite finanziarie?
«Non si può. Stiamo gestendo lo Stato come un’impresa che aumenta esclusivamente i prezzi di vendita. Così si chiude. Non possono continuare a pensare solo a nuove forme di prelievo. Esiste una parola che è la crescita e che non coincide con le strade che stanno cercando».
Tra Finanziaria e proteste contro la legge Biagi l’autunno rischia di essere veramente caldo.
«Il riferimento, anche della politica, è il mercato. E il mercato non aspetta nessuno. O siamo capaci di allinearci oppure i bilanci non vanno e le famiglie non vivono. Non accetto che l’Italia, con la capacità imprenditoriale che ha, sia al traino delle altre economie. Deve essere protagonista».
A posteriori è anche lei critico verso la neutralità di Confindustria alle elezioni 2006?
«Ho sempre cercato di essere un uomo e un rappresentante libero. Ho espresso giudizi su governi locali e nazionali di centrodestra e di centrosinistra sulla base di quello che hanno fatto, ma da piccolo imprenditore fatico a riconoscere qualcosa che questo governo abbia fatto per la piccola impresa. Però ne ha parlato tanto e ne continua a parlare».
Nel protocollo ci si muove in direzione dell’impresa?
«Le cifre destinate al recupero di competitività sono ridicole se paragonate alla dimensione del tesoretto uno, due, tre.

Siamo alla saga dei tesoretti».
Ha idee da proporre?
«Tante, ma dobbiamo avere la capacità di concentrarci su una cosa: togliere il costo del lavoro dall’imponibile Irap. Si dia un segno di buona volontà nei confronti delle piccole imprese».

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