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Il cowboy dal cancro alla leggenda

Il cowboy dal cancro alla leggenda

Cristiano Gatti

nostro inviato a Parigi

Per la settima volta consecutiva, l’inno americano e il sogno americano stordiscono di commozione la Parigi che ama i miti, abituata da secoli a correre sotto l’Arco di Trionfo per l’acclamazione delle glorie eccelse. Fin troppo facili nel definire grande ogni cosa, stavolta i parigini non sembrano sprecare superlativi a vuoto: salutano Lance Armstrong, l’atleta che mette la parola fine alla più grande storia mai scritta dallo sport.
Molte se ne sono scritte, ma nessuna come questa. È capitato che un uomo abbia battuto il cancro e sia tornato alle grandi competizioni, magari vincendone qualcuna. È capitato anche che qualcuno abbia totalizzato sette medaglie olimpiche, o sette titoli mondiali, o sette record, ma senza mai aver sofferto nemmeno di raffreddore. I vertici dell’immaginazione, potremmo dire delle possibilità umane, li ha toccati uno soltanto: lui, che prima ha vinto il cancro, e poi ha vinto sette Tour de France consecutivi, impresa mai riuscita ad alcuno.
Assuefatti alla monotonia delle sue vittorie, corriamo il rischio di lasciarci sfuggire dalle mani e dall’anima il senso assoluto di una vicenda così alta. Ma è meglio sventare subito il rischio, riservando a questo momento la dignità che merita. Perché niente venga dimenticato. Non siamo di fronte a una semplice parabola sportiva: siamo di fronte a una profonda parabola umana.
Armstrong forse non è un mostro di simpatia, e per la metà del mondo che odia l’America può pure diventare l’icona del peggio, della prepotenza e dello strapotere. Peccato però che quella di Lance, molto più di tanta mitologia adottata nei cenacoli chic, sia forse la massima espressione del proletariato alla riscossa.
Quando nasce, il 18 settembre 1971 a Plano (Dallas), in Texas, non ha neppure un padre. Sua madre Linda resta incinta giovanissima di un tizio che poi sparisce. Come sovrapprezzo, il piccolo Lance cresce tra le botte e le angherie di un padrino ubriacone. Il solo patrimonio di cui disponga è l’amore di sua madre. Tanto che per lui, a un certo punto, la signora caccia di casa il manesco compagno.
Crescono insieme, in un patto d’acciaio, i due sventurati. La mamma impara a diventare donna, il suo ragazzo impara a diventare uomo. Atleticamente, è fortissimo. Vince nel triathlon, dove servono superuomini. Poi, la scelta drastica della bicicletta. A 21 anni è già il campione del mondo più giovane della storia: vince ad Oslo, sotto il diluvio, con uno scatto di rara potenza, lasciandosi alle spalle Miguel Indurain e il tedesco Olaf Ludwig (mica due sconosciuti). La sera, il re di Norvegia invita lui e la squadra americana al ricevimento di gala. Lance vuole avere al fianco mamma Linda, gli addetti al cerimoniale gli fanno sapere che non è previsto. «Va bene - reagisce fermo il giovane texano - se il re non vuole mia madre, significa che neppure io sono all’altezza». Dopo febbrili consultazioni, il re in persona risolve l’impasse diplomatico e apre le porte dei suoi palazzi alla strana famiglia Armstrong.
Poi, la parabola che tutti conoscono. Nell’autunno del 1996, quando sembra vicino alla definitiva consacrazione come ottimo specialista per le corse in linea (tra le vittorie più importanti la Clasica San Sebastián ’95 e la Freccia Vallone l’anno dopo), gli annunciano che ha una grave forma di cancro ai testicoli. Corre nella Motorola. Racconterà: «Quella volta, è entrato in ospedale un Lance e ne è uscito un altro… ». Dopo 518 giorni di interventi, di terapie pesanti e di riabilitazioni, torna finalmente alle corse. È il 1998. Il suo commento: «Ringrazio il cancro, è stata un’esperienza bellissima».
Da questa esperienza matura la ferma volontà, quasi una vocazione, di usare la sua storia come modello, a beneficio di chi non vuole più combattere contro la malattia. Di chi accetta subito la sconfitta. Una sfida per se stesso, una sfida per gli altri. La ripresa è durissima, con appena cinque vittorie, in gare minori, al rientro: nell’ambiente, nessuno crede che possa tornare campione. Soltanto una persona azzarda la scommessa: è Johan Bruyneel, un direttore sportivo belga, ex professionista di buon livello (quattro partecipazioni e due vittorie di tappa alla Grande Boucle, nel 1993 e ’95). «Lance, proviamo al Tour», gli dice davanti al contratto. È il 1999: Armstrong torna al Tour, e lo vince subito. Da quel giorno non ne perde più, diventando quello che oggi il mondo saluta come Mister Seven.
Strada facendo, trasforma il ciclismo, apportando il metodo americano dei grandi investimenti, della grande organizzazione, della grande fatica. È come un marchio di fabbrica, cui gli altri presto si adeguano. Guadagna tantissimo: nelle ultime stagioni, tra ingaggio e sfruttamento dell’immagine, la stima parla di 35 miliardi (in lire) all’anno. Scrive libri sulla sua storia. Crea una Fondazione per la ricerca contro il cancro, lanciando nel mondo braccialetti di culto color giallo che raccolgono milioni di dollari (la famosa linea «Livestrong»). Eppure, non perde mai l’impronta del texano semplice, magari irruente e sbrigativo, ma sempre sinceramente se stesso: mai visto un solo giorno, un solo momento, Lance Armstrong diveggiare.
Nella vita privata, altri tumulti. Nel 2002 divorzia dalla compagna storica, quella Kristin che non l’ha mai abbandonato nei momenti terribili della malattia e che gli ha regalato tre bambini, il maschio Luke e le gemelline Isabel e Grace.
«Abbiamo fatto di tutto per stare insieme - racconta Lance - ma alla fine abbiamo deciso insieme di dividerci». Nella sua vita, ormai, è entrata una nuova figura, la star della musica country Sheryl Craw. Con lei, racconta alla fine dei sette Tour, sogna soltanto di godersi una nuova esistenza, diventando l’amicone dei propri figli, bevendo buona birra (senza dimenticare il vino, di cui non s’intende ma che apprezza), incitando chi soffre a scalare le ripide salite della malattia. Ora che ha tutto, coltiva il sogno segreto della normalità.
Good luck Lance, ti sorridano tutte le fortune. Con una semplice bicicletta, hai compiuto qualcosa di immenso.

Tanti anni fa, un altro Armstrong ha lasciato la sua impronta sulla Luna: tu puoi goderti una buona birra, soddisfatto e placido, pensando di aver lasciato la tua impronta sul pianeta terra.

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