Cremonini e Jovanotti, le vite (di platino) parallele

Cantano valori positivi, la critica li ha rivalutati, il loro pubblico non ha bandiere. E' di Cesare il miglior brano del 2010, Lorenzo dominerà il 2011 col nuovo Ora

Cremonini e Jovanotti, le vite (di platino) parallele

Quasi quasi l’hanno fatto apposta: tié beccatevi questa, cantiamo insieme nello stesso brano. È Mondo, la canzone di Cesare Cremonini con un rap di Lorenzo Jovanotti Cherubini che da iTunes è stato premiato come miglior singolo dell’anno e diventerà uno dei brani simbolo di questa stagione: «Ho visto un posto che mi piace, si chiama mondo» dice uno, il bolognese che guai a chiamarlo ex Lùnapop, e «Gira e gira e non si ferma mai ad aspettare», risponde l’altro al quale, dopo aver ascoltato Gimme five, Michele Serra augurò nientemeno che «una morte lenta e dolorosa» salvo poi, come regolarmente accade ai cosiddetti intellettuali di sinistra, accorgersi di aver capito la realtà solo vent’anni dopo. Ora loro due, Cremonini e Jovanotti, si danno il cambio: entra uno, esce l’altro, quasi continuassero, così diversi anche anagraficamente eppure così in sintonia, a divertirsi, a sparire pur rimanendo in qualche modo sempre qua, uno sul ramo Gaber (senza poesia implacabile ma con voracità istrionica), l’altro sul ramo Celentano, conducator senza paragoni, magari criticabile ma di sicuro inimitabile e forse criticato perché inimitabile, capace di dire ciò che pensiamo prima che lo pensiamo e per questo sottovalutato: «E ogni cicatrice è un autografo di Dio, nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio» (la Mezzogiorno del bellissimo disco Safari).
Filo conduttore di entrambi: l’ottimismo, i valori cosiddetti nostalgici perché sembrano valere sempre meno, la famiglia, la lealtà, la politica non strillata (forse «la grande chiesa da Che Guevara a Madre Teresa» di Lorenzo sarebbe stata da spiegare meglio...) e il rimboccarsi le maniche quando il mondo non si ferma ad aspettare e lamentarsi non serve a nulla se non a farlo aspettare ancora meno. Nel 2010 Cremonini, che è forse il trentenne più entusiasmante del nostro pop, ha ricevuto il disco di platino per il greatest hits 1999-2010, roba che ormai per una raccolta di successi è una rarità, e ha firmato, secondo iTunes, il miglior brano dell’anno, Mondo appunto, realizzando per di più ciò che oggi è impensabile: innamorarsi di Malika Ayane senza che nessuno ci spettegolasse sopra, anzi cantando pure con lei (bravi entrambi in Hello) e provate a cercare, se ci riuscite, una malignità su di loro. Un anno d’oro. Adesso tocca a Jovanotti che, con Tutto l’amore che ho dal cd Ora in uscita il 25 gennaio, ha il cosiddetto singolo dappertutto, cioè si sente e si vede ovunque perché le radio lo suonano ininterrottamente e due milioni di persone si sono già accodate su YouTube per vederlo perciò figurarsi che attesa per il tour che inizierà a Rimini il 16 aprile.
Così distanti, così vicini.
Quando era un deejay ventenne e il tipografo aveva già sbagliato a stampare il nome d’arte sulla copertina del suo primo singolo Walking (era Joe Vanotti, divenne Jovanotti, ah la distrazione), Claudio Cecchetto si sentì dire da sua moglie: l’altra sera ho visto un dj che faceva un casino favoloso. Il resto poi lo conosciamo ed è entusiasmante ascoltare un ragazzo di 44 anni che nel 1989 era a Sanremo a bordo della Mia moto (quella che «Mi accorgo che con lei mi sento proprio Fonzie») e adesso, dopo aver pubblicato nel 2008 uno dei dischi più belli del decennio, Safari, canta una melodia che è unica perché la possiamo cantare tutti senza neppure metter piede in una scuola di canto. È uno dei talenti del talento e pochi altri come Lorenzo Cherubini, figlio dell’amatissimo Mario, sono stati in grado, en plein air, senza rancori malmostosi, di mettere in piazza i propri distillando le critiche senza lasciarsene dominare, proprio come cantava già secoli fa: «Io credo soltanto che tra il male e il bene è più forte il bene» (da Penso positivo, 1994). E figurarsi quanto è costato a Cesare Cremonini crescere senza avere un po’ di ombra fin dai tempi dei Lùnapop, lì per lì massacrati dai critici e ora - Serra docet - rivalutati perché il pop è quella roba lì e basta. Lui, un polistrumentista che studia da quando aveva sei anni, sa leggere la musica e, soprattutto, farla capire a chi l’ascolta, cosa che non è da tutti. Adesso sul palco suona il piano con la foto di Freddie Mercury davanti, ma a sedici anni ha scritto la complessa Il pagliaccio («Sono il guardiano del Paradiso, per me si va soltanto se sei stato buono») senza poterla inserire in Squerez! perché era troppo, già, nel senso di troppo avanti per un «semplice» album pop. In poche parole, è nato per questa cosa qui: raccontare la propria vita con le note dentro, e chisseneimporta se talvolta vengon fuori limiti o difetti.

Così, per altre strade, ha fatto anche Lorenzo Cherubini e ora, per forza, si trovano, cantano insieme, si danno il cambio anno dopo anno, sono alla fine le voci diverse dello stesso linguaggio, il futuro (prossimo) della nostra canzone.

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