Da 40 anni signori del disprezzo. È "Repubblica" o una dittatura?

Sono passati ormai quarant'anni dalla notte del 13 gennaio 1976 in cui la Repubblica uscì per la prima volta dalle rotative

Da 40 anni signori del disprezzo. È "Repubblica" o una dittatura?

Sono passati ormai quarant'anni dalla notte del 13 gennaio 1976 in cui la Repubblica uscì per la prima volta dalle rotative. Il 14 gennaio il nuovo tabloid era al centro della curiosità e tutti aspettavano di capire come funzionasse la nuova invenzione di Eugenio Scalfari. Il «fondatore» non usava ancora quel tono aulico e arrochito da cui oggi non sa più separarsi ed era un uomo di successo, ambizioso ed elegante. Io lo avevo conosciuto quando un mio amico dell'Espresso fu ferito in un incidente e restò in coma a Genova e Serena Rossetti, la sua attuale moglie, lo venne a trovare. Poco dopo mi convocò per partecipare all'impresa. L'Espresso - un settimanale di grande formato ispirato alla scuola di Longanesi - era stato anche quello opera di Scalfari che lo aveva portato a un milione di copie. Ma nel 1967 lui e Lino Jannuzzi furono condannati a un anno di reclusione per avere denunciato un presunto colpo di Stato. Fu così che il segretario del Partito socialista italiano Giacomo Mancini candidò Scalfari e Jannuzzi alle elezioni del 1968 in modo che potessero godere dell'immunità parlamentare. Scalfari fu eletto a Milano e lì si scontrò subito con Bettino Craxi, il quale però riuscì a farlo trombare alle elezioni del 1972 fornendo al Corriere della Sera la notizia della lite tra Scalfari e un vigile urbano, del genere «lei non sa chi sono io». Sconfitto alla Camera, Scalfari pensò di tornare al timone dell'Espresso, ma la vecchia guardia del settimanale (la cosiddetta «banda dei quattro») gli sbarrò la strada. Fuori dal Parlamento e senza la direzione dell'Espresso, Eugenio concepì il figlio che aveva in mente da un decennio. E così nel '76 nacque la Repubblica edita dall'Espresso e dalla Mondadori del vecchio Arnaldo. Ma non fu un successo immediato e il pubblico non capiva dove andasse a parare: se fosse un giornale comunista o se cercasse lettori fra socialisti, radicali, sinistra extraparlamentare e cani sciolti. All'inizio Scalfari coltivava in redazione scapigliati e teste matte di ogni genere. Al quarto piano di piazza Indipendenza a Roma venivano ad arruolarsi giovani «gruppettari», verdi e femministe, mentre il giornale strizzava l'occhio ai dissidenti sovietici che dividevano il partito comunista di Enrico Berlinguer. Il quale si voleva scrollare di dosso la tutela sovietica e dunque c'era già un terreno d'incontro, ma i comunisti erano molto ansiosi per l'attrazione che suscitava la Repubblica: il giornale aveva fascino e il suo fondatore applicava a modo suo la lezione gramsciana creando una sua egemonia culturale. Repubblica si trasformò in una specie di piccola Versailles di un Re Sole che conquistava un potere non soltanto giornalistico, quello di concedere o negare legittimità. Il quotidiano determinava non soltanto le carriere dei politici (ai quali non portò fortuna) ma dettava sia le regole del successo che quelle del disprezzo. Il disprezzo diventò un'arte marziale e un prodotto commerciale. Uno stuolo di dandy e di personaggi geniali e bizzarri chiamati a corte da Eugenio creava tendenze e gerarchie persino sulla lunghezza dei calzini e la scelta, in materia di mutande, fra boxer e slip. Repubblica favoriva o bloccava carriere universitarie alimentando e deludendo attese. Il direttore al mattino trovava sul suo tavolo la lista dei politici, ministri, segretari, scrittori, poeti, economisti che chiedevano di essere ammessi all'udienza telefonica. La fabbrica di questa egemonia geniale e sfrontatamente faziosa fu il processo più straordinario cui abbia assistito. Le famose riunioni del mattino - le «messe solenni» - erano dei seminari di competenza ma anche di narcisismo e i posti erano tutti prenotati. Seguirono presto strascichi di gelosie, ripicche, crisi di nervi. Questo potere d'interdizione e di legittimazione, non soltanto di giornalismo aggressivo, furono il vero valore aggiunto di Repubblica. Scalfari spiegò che il suo giornale non aveva come fine il giornalismo in sé, notizie e commenti, ma «campagne»: il quotidiano si trasformava in una corazzata con mille cannoni come quella di Jenny delle Spelonche di Brecht. L'esempio più clamoroso fu la campagna feroce e ingiustamente vincente con cui fu costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Come macchina del fango funzionava a meraviglia. Un giorno Craxi, annunciò di volere fare la «lira pesante»: mille vecchie lire per una nuova lira. Scalfari disse: «Eccellente idea. Peccato che sia una sua idea. Dobbiamo stroncargliela». Questo era il clima.A Repubblica entrarono per la prima volta le donne. Scalfari si portò via Natalia Aspesi dal Giorno insieme a Giorgio Bocca e il nuovo quotidiano si riempì di donne che non si occupavano di cucina, moda e arti leggere, ma di economia, politica estera, editoriali. Barbara Spinelli era una ragazza con la treccia e Miriam Mafai si occupava della società; la cultura era diretta da Rosellina Balbi, napoletana ed ebrea, la politica sindacale da Vittoria Sivo. Un'innovazione assoluta che costrinse gli altri giornali ad adeguarsi. Abbandonati i socialisti (Bettino Craxi era diventato segretario del Psi nello stesso anno in cui nacque Repubblica) Eugenio Scalfari decise di aprire la caccia al lettore comunista, il vero giacimento di copie. E lo sfruttò benissimo. Esisteva il quotidiano comunista Paese Sera e Scalfari lo svuotò portandosi a piazza Indipendenza tutta l'argenteria. La trattativa fu fatta direttamente con il Pci e così un giorno, bella ciao, abbiamo trovato l'invasor: i giornalisti venuti dal Pci occuparono più della metà dei posti chiave. La mutazione era avvenuta e adesso Repubblica puntava all'abbordaggio dello stesso partito comunista. Scalfari intanto aveva creato la figura non soltanto retorica del «cono d'ombra». Tutti coloro che gli si mettevano di traverso entravano automaticamente nel «cono d'ombra», cioè in uno stato di non-esistenza, una caduta in disgrazia. Io entrai nel cono d'ombra quando, passato alla Stampa diretta da Paolo Mieli riuscii a contrastare e impedire la defenestrazione di un altro presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che Scalfari avrebbe voluto far dimettere con un certificato medico e sostituire con un gruppo di saggi dalla barba bianca.L'antiberlusconismo di Scalfari ha sempre avuto toni da crociata, come quelli usati per Bettino Craxi e questo faceva parte del grande gioco. Abbattuto Craxi, tutta la forza fu mobilitata contro Berlusconi come se si trattasse di una guerra di successione. Scalfari era certamente antiberlusconiano ma, come businessman, subiva una certa attrazione per il Cavaliere. Quando scrissi un libro intervista su Carlo De Benedetti (Guzzanti VS De Benedetti, Aliberti editore) l'Ingegnere citò con malumore il fatto che Scalfari, in compagnia di Carlo Caracciolo, era andato a cena ad Arcore. Quello fu certamente un incontro a sorpresa e anche molto festoso, con Fedele Confalonieri al piano che suonò la Rapsodia in blue di George Gershwin. Scalfari come Berlusconi è un buon pianista e durante il banchetto arcoriano si cantò, si bevve e si sondò una possibile alleanza contro De Benedetti, che poi non si fece. Ma la notizia uscì con un certo imbarazzo e quando gli chiesi com'era andata la serata al pianoforte, Eugenio ebbe un gesto di stizza. Ma la frittata era fatta e De Benedetti se la legò al dito. Fu anche per questo che, dopo avere comprato Repubblica impose a Scalfari le dimissioni scegliendo come suo successore Ezio Mauro, allora direttore della Stampa. Eugenio masticò amaro ma d'altra parte aveva venduto la sua proprietà e dunque non poteva restare al comando. Ottenne però nel 1996 il diritto di dichiarare che Ezio Mauro l'aveva scelto lui. Poi chiese di potere scrivere l'articolessa domenicale che a De Benedetti non è mai piaciuta: «È raro che gli riesca bene, ma se glielo dici s'incazza».Repubblica sotto la direzione di Mauro ha cambiato radicalmente pelle e forma allontanandosi anni luce dal modello originario che Scalfari indossava come un capo d'abbigliamento. L'antiberlusconismo aveva assunto toni da guerra civile mentale, con un'enfasi ad personam che rendeva moltissimo in termini di copie. Quando sembrava che Berlusconi fosse uscito definitivamente dal gioco politico, Repubblica perse moltissime copie. Ezio Mauro mi disse di rimpiangere i tempi d'oro dello scontro frontale. Quando dovette cedere il suo trono, Scalfari chiese e ottenne la garanzia che nessuno avrebbe potuto dirigere Repubblica un giorno di più di lui. Questa clausola era nota fin dall'inizio a Ezio Mauro e così si è arrivati oggi alla direzione di Mario Calabresi, accompagnata da un'altra esplosione di malumore di Scalfari, perché non era stato consultato. La direzione Calabresi inaugurerà dunque il terzo ventennio del giornale di Largo Fochetti, ma in un mondo che è un altro mondo. Quel che mise in moto Scalfari quaranta anni fa è ormai irripetibile. Ma l'impresa di allora, creare un oggetto e imporlo come primo quotidiano italiano, fu anche un miracolo industriale oltre che giornalistico. Il Giornale di Indro Montanelli era un intrepido e glorioso vascello, ma Montanelli diversamente da Scalfari non aveva una mentalità da uomo d'affari. La Repubblica invece aveva creato una sinergia con la Raitre di Angelo Guglielmi e il Tg3 di Sandro Curzi («Telekabul») che insieme al settimanale l'Espresso formavano uno strumento di pressione sull'opinione pubblica quasi irresistibile. Chiesi a Silvio Berlusconi se non si potesse creare un sistema mediatico antagonista, ma rispose che non era possibile: i liberali e i moderati, disse, sono ingovernabili e del resto le sue reti commerciali non potevano perdere una fetta di mercato per fare politica.

Tutto ciò è ora un ricordo: è finita l'epoca dell'egemonia culturale e della corte di piazza Indipendenza sono rimaste memorie che impallidiscono e scenari smontati, come a Cinecittà quando un film è finito e piove sul compensato.

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