Gli italiani in democrazia sono grandi alchimisti, inventano, sperimentano, intrigano, ribaltano i costumi della politica con formule ibride che chi non ama ingaglioffarsi nelle trame dei giochi di potere non comprende o considera semplicemente folli. Non è facile spiegare la democrazia all'italiana a chi italiano non è. Le avventure anglosassoni di House of Cards sono nulla di più di una funambolica partita a scacchi rispetto a quello che accade qui. Il nostro gioco è più sottile e a volte surreale, perché a parole siamo sempre sull'orlo di una guerra civile, eterni prigionieri del rosso e del nero, solo perché ci piace un nemico da maledire, spesso per dare un senso al proprio egocentrismo, poi però improvvisiamo funzioni algebriche stracolme di variabili per aggrapparci a questa o quella poltrona. La ragione di tutto questo non è il machiavellismo, perché il Principe, quello idealizzato da Machiavelli con il volto di Cesare Borgia o quello di Gramsci sotto forma di Partito, non si muove in uno scenario liberal-democratico. No, i governi atipici in Italia nascono con i primi vagiti democratici, con lo Statuto Albertino, prima carta costituzionale del regno. È Cavour in fondo che si inventa il «connubio», un perfetto tagliafuori delle ali per trovare una maggioranza al centro. Camillo Benso spiazza D'Azeglio e si allea con la sinistra (moderata) di Rattazzi. È il 1852 e connubio significa solo matrimonio, da allora diventa una formula governativa. È un ribaltone verso il centro. Ce ne saranno altri.
Il secolo non è ancora finito. L'Italia è fatta, gli italiani molto meno e nel 1882 Agostino Depretis, leader della sinistra storica, per liberarsi da catene ideologiche apre le porte a tutti i convertiti. Lo fa con lo storico discorso di Stradella: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?». Appunto. Con questa frase furbetta si inaugura la stagione del «trasformismo». La tentazione è sempre la stessa: raccogliere una maggioranza non politica, ma personale. Giovanni Giolitti, il contabile di Dronero, primo capo del governo a non avere nulla a che fare con il Risorgimento, su questo principio ci costruirà anni e anni di consenso. Destra e sinistra non esistono più. C'è solo la maggioranza giolittiana che lui chiama partito della nazione. Vi ricorda qualcuno?
La democrazia dopo il tragico ventennio fascista non è meno creativa. Amintore Fanfani disegna il «centrosinistra». Aldo Moro pagherà con la vita le «convergenze parallele» e il «compromesso storico». Enrico Berlinguer si fa tentare dall'appoggio esterno. Pella, Leone e Rumor sono i bagnini del «governo balneare». Craxi e De Mita mettono in scena la «staffetta». Sindacati e Confindustria sponsorizzano stagioni di consociativismo. La seconda Repubblica replica con il ribaltone di Bossi, con governi tecnici o del presidente, con le maggioranze a soccorso dei «responsabili», fino al governo dello «stai sereno» di Renzi.
Quello che però stiamo vivendo è davvero difficile da immaginare, una maggioranza dalla personalità borderline, ai limiti della patologia mentale. Eccolo: il governo bifronte.
Bifronte come il Giano dei romani, sospeso in un eterno presente. È il governo strabico e schizoide che fa opposizione a se stesso. Il governo che c'è e non c'è, chiuso e aperto, vero e falso. È il governo senza risposte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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