Così la nuova legge sui mafiosi può rovinare gli imprenditori

Per i professionisti sospettati di corruzione scatterà il sequestro dei beni. Come per i boss di Cosa nostra

Così la nuova legge sui mafiosi può rovinare gli imprenditori

L a stampa progressista lo lucida come si fa con i gioielli. Il Parlamento ha finalmente approvato il nuovo codice antimafia. Ma fra le tante norme varate, sacrosante, ce n’è una che rischia di provocare guasti profondi al tessuto sociale del Paese: è il passaggio che di fatto equipara i corrotti ai mafiosi e li risucchia nel gorgo delle misure di prevenzione. Tradotto per i non addetti ai lavori, ora sarà possibile sequestrare il patrimonio di un imprenditore o di un professionista che sia anche solo sospettato di aver allungato mazzette per oliare appalti. La questione è stata al centro di un braccio di ferro fra Matteo Renzi e il Guardasigilli Andrea Orlando che premeva per inasprire il testo. Alla fine la diatriba è stata risolta solo apparentemente con un compromesso: si potranno portare via i beni a chi sia inquisito non solo per corruzione o concussione, ma per associazione per delinquere finalizzata a commettere questi reati. Insomma, si viene puniti solo se l’illecito è, ci si perdoni l’espressione, al quadrato. «Noi pubblici ministeri - afferma al Giornale un magistrato del Nordest - raramente contestiamo l’associazione per la corruzione o la concussione». Solo che la precisazione, pur doverosa, non risolve il problema. Il punto decisivo è lo stigma che colpisce il soggetto in questione: l’imprenditore che, forse, ha dispensato oboli viene trattato come il boss di Cosa nostra. Non ci vuole la condanna e, a dirla tutta, non serve nemmeno il processo: basta il sospetto, è sufficiente il tenore di vita o conti in banca che appaiano sproporzionati rispetto al lavoro svolto. Parametri flessibili, pensati per la mafia ed ora estesi in numerose direzioni: così il colletto bianco entra nel sinistro circuito delle persone pericolose socialmente. E viene afferrato dagli ingranaggi della giustizia. La casistica sull’associazione per delinquere offre comunque un ventaglio di precedenti molto ampio: l’indagine sulla cricca dei Grandi appalti in cui tornavano i nomi del costruttore Diego Anemone, dell’alto funzionario Angelo Balducci, dell’ex numero uno della Protezione civile Guido Bertolaso. Una storia da manuale, se fosse ancora attuale, per battezzare la nuova legge. Che però potrebbe essere applicata anche al torbido intreccio di Consip e alla figura, da anni nel mirino dei giudici, dell’imprenditore Alfredo Romeo. Come un soldato di Cosa nostra potrebbe essere considerato Giandomenico Monorchio, figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, coinvolto in una vicenda di appalti illegali. Stessa situazione per i tecnici e gli industriali finiti a suo tempo nel calderone dell’inchiesta sulla Tav: dal supermanager Ercole Incalza all’ingegner Stefano Perotti. Ma l’elenco dei possibili bersagli passa anche per politici come Roberto Formigoni e Ottaviano Del Turco. Qualcosa non quadra, anzi stride. I cultori del diritto sanno che la pericolosità sociale ha due facce: quella generica e quella qualificata. Il nuovo strumento infila i signori della tangente nel secondo girone. È un salto culturale impressionante. Ma non si tratta solo di suggestioni. «La norma appena nata - spiega al Giornale Nicola Madia, assegnista di diritto penale all’Università di Tor Vergata - è demagogica e inutile perché già la precedente legislazione permetteva di attaccare i patrimoni fuori dal perimetro di Cosa nostra. Colpendo evasori, riciclatori e via elencando.

Ma è ancora più grave che il testo sia arrivato a poche settimane dalla sentenza della Corte di Strasburgo che ha bacchettato le misure di prevenzione perché tropo generiche e vaghe». Una bocciatura che, nel disinteresse generale, il parlamento ha di fatto ignorato.

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