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Conte è sotto sui numeri. E pensa allo schema Prodi

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Conte è sotto sui numeri. E pensa allo schema Prodi

«Al momento i numeri non ci sono». Una volta tanto, miracoli della crisi di governo, almeno su un punto sembrano essere tutti d'accordo. Dai leader dei partiti di maggioranza, passando per il guastatore Matteo Renzi e fino a tutta l'opposizione. Compreso il Quirinale. Nonostante le diverse ambasciate di queste ultime 48 ore, infatti, Giuseppe Conte non avrebbe affatto numeri certi per superare un voto di fiducia quando, domani alla Camera e martedì al Senato, si presenterà in Parlamento. E non si parla della maggioranza assoluta (316 a Montecitorio, 161 a Palazzo Madama), ma della cosiddetta maggioranza semplice. Sufficiente da un punto di vista costituzionale (come già accaduto con i governi Berlusconi, Ciampi, Cossiga, D'Alema, Dini e altri), ma politicamente inadeguata a garantire un esecutivo di prospettiva. Anche quei numeri, ammettono i vertici del Pd e del M5s, sono ad alto rischio. Lo dice in chiaro Renzi, che però ha evidentemente un interesse di parte («al Senato sono a 150-152», giura). Ma lo ammette nelle sue conversazioni riservate pure Dario Franceschini, capo delegazione dem nel Conte 2. «Non ci siamo», confida al telefono a più di un interlocutore. Tanto che nel Pd si ragiona sull'eventualità di riaprire un canale con Renzi per verificare se, al di là della tentazione di eliminare politicamente il senatore di Rignano, ci siano le condizioni per trovare un punto di caduta accettabile per tutti. E che la situazione sia al limite lo sanno bene anche nel centrodestra, tanto che ieri Matteo Salvini - a nome di tutta la coalizione - ha buttato lì l'idea che Sergio Mattarella possa valutare l'idea di «lasciare al centrodestra l'onere di governare». Un modo per provare a mettere sotto pressione il Colle, visto che - ripete il leader della Lega in privato - «con noi il Quirinale non ha avuto la cortesia di permetterci di andare a cercare i numeri in Parlamento». Un ragionamento legittimo, anche se è evidente che la situazione oggi è di molto differente, visto che Conte è un premier in carica che, almeno fino ad ora, non si è ancora dimesso. Impossibile, insomma, impedirgli di andare in Parlamento a cercar voti. Un po' come fece Romano Prodi nel gennaio 2008 quando, dopo aver ottenuto la fiducia alla Camera, si presentò al Senato e finì per andare a sbattere.

Conte - al netto ovviamente dell'epilogo - sta ragionando su uno schema simile. Presentarsi domani alle 12 a Montecitorio, incassare la fiducia - nonostante senza Italia viva i numeri siano quasi al filo (325-330 compresi i voti del gruppo Misto) - e poi salire al Colle. A quel punto, forte della fiducia di una delle Camere, il premier chiederebbe a Mattarella il reincarico e si presenterebbe al Senato per il Conte ter. Ed è qui che si giocherebbe la partita. Perché, al momento, la maggioranza si aggira tra i 154 e i 158. Abbastanza per portare a casa la fiducia, ma non per respingere un eventuale colpo di mano di Italia viva. Renzi ha infatti assicurato l'astensione, ma con numeri così risicati sarebbe sufficiente che all'ultimo minuto una decina di senatori di Iv votassero contro e Conte finirebbe per andare a sbattere più rumorosamente di quanto fece Prodi nel 2008. Lo sa bene il premier, che però insiste nel voler andare alla conta. E questo nonostante l'Udc di Lorenzo Cesa si sia ufficialmente sfilato (pare, dopo un colloquio con Silvio Berlusconi), seguito da Clemente Mastella e dalla piccola pattuglia di senatori che gli fanno capo.

Numeri ballerini, dunque. Ma Conte continua a ripetere che a lui «basta un voto in più». «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. Soprattutto non ho alcuna intenzione di trattare con Renzi, uno che appena ti giri ti accoltella alle spalle», spiegava ieri al telefono il premier mentre sondava un potenziale senatore «costruttore». La sensazione, però, è che in molti inizino a prendere le distanze dal premier. Primi fra tutti i cosiddetti responsabili, ben coscienti che se devono dare il loro voto a sostegno di un governo - ovviamente nell'interesse del Paese - sarebbe bene fosse non il Conte ter ma qualsivoglia esecutivo venga dopo. Ci sarebbero meno vincoli, più agibilità politica e, soprattutto, più poltrone disponibili. Il Pd non è arrivato a tanto. Però, pur assicurando pieno sostegno al premier, ieri Nicola Zingaretti ci ha tenuto a dire a Conte che «dovrà essere Palazzo Chigi a gestire la conta dei numeri al Senato».

Dovesse andar male, insomma, i dem non vogliono saperne nulla.

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