Ecco. Il primo caso a Milano. E adesso? Dove lo porto? Dove lo metto? Dove lo chiudo? Lo sapevo, tanto. Ed è di certo solo l'inizio. L'inizio della fine. Io a scuola non lo mando più, me ne frego di aspettare che sia l'istituto a decidere. E neanche al calcio, ovvio. Lo chiudo in casa, non lo faccio uscire finché questa follia non finisce, finché non trovano una cura certa per il Coronavirus, il vaccino. Finché non debellano tutto. Prendo mio figlio e lo chiudo in casa.
Non c'è bisogno abbia contatti con qualcuno. Santa Playstation, per una volta. Santi contatti virtuali, altro che. Eh già, ma suo padre ed io usciamo però. E allora è inutile. E poi, tra l'altro, con chi sta mentre noi siamo fuori e andiamo a lavorare? Con i nonni. Sì. Lo chiudo in casa con i nonni. Anzi dei nonni. Così non rischia nemmeno per colpa mia e di suo padre. Eh già, ma anche i nonni escono. La spesa da fare, il cane da portare fuori... Già il cane! A breve Milano sarà l'Armageddon, una splendida città lanciata nel futuro e improvvisamente immobilizzata, come le farfalle delle bacheche con gli spilli nelle ali.
Potrei mettere tutti in campagna. Ma le nostre campagne sono nel Piacentino... Potrei mandarli al mare, in Sardegna! Perfetto, è pure un'isola e lì non sono ancora stati segnalati casi. Sì, ma c'è il viaggio: la nave, o l'aereo, situazioni di altissimo rischio per il contagio. E se partissero e qualcuno di loro avesse già contratto la malattia? E se avessero bisogno di qualcosa e a quel punto fossero lontani? E io come farei a vederli, comunque? Come farei a vederlo, mio figlio? Sono troppo affamata di lui per rinunciare a stragli vicino, ma certo non posso concepire di «ammalarlo io», proprio io. E come farebbero a mangiare, a procurarsi ciò che serve, una volta là e soli? Potrei prendere una barca, riempirla di provviste, di medicine, di pappa per il cane, di tutto ciò che serve. Far fare gli esami a tutta la famiglia e una volta certi di essere tutti sani, salpare. Veleggiare in mezzo al mare senza toccare terra finché, di nuovo, tutto non passa. Oppure potremmo avvicinarci a terre deserte, mai calpestate dall'uomo, perché è inverosimile stare perennemente in mare per gente a cui va stretta persino una crociera. Sì, ma dove sono queste terre e come sono? E come si fa, comunque, con un bambino di dieci anni, una bisnonna di novantasei, un cane...
E poi non siamo capaci di impervio, di selvatico, di spine. Oppure potrei procurarmi quegli scafandri che si vedono nei film catastrofici sulle grandi epidemie, quelli che di solito avvolgono gli eroi che alla fine riusciranno a debellare il virus e a calpestare un mondo ormai semideserto. Io non debellerò un bel niente però potrei proteggere tutta la mia famiglia con quelle tute munite di casco che ti mantengono in un'atmosfera rarefatta. Sì, ma dove si trovano? E quanto durano? E come funzionano? O forse un rifugio antiatomico. Certe case, certi palazzi costruiti anni fa ne posseggono uno. Sì, ma quali? A tratti mi viene questo pensiero assurdo e infame e mi dico che forse è più facile difendersi dalle bombe. Atroce. E falso.
Ma in ogni caso, anche per il bunker, varrebbero tutti i quesiti di prima. Quella maledetta frase che mi trafigge le tempie: nessuna catena è più forte dell'anello più debole. Quella cascata di contatti partita dal Lodigiano, e chissà se davvero da lì, poi... Persona dopo persona, caso dopo caso, stretta di mano dopo stretta di mano... e il dilagare.
Ma allora non c'è soluzione? Eppure nei film qualcuno la trova sempre. Ma certo, io potrei essere tra gli «altri», tra la miriade che svanisce. Perché non riesco a pensare anche se penso di continuo. Giro a vuoto e trovo un problema per ogni soluzione. Mi servirebbe il contrario.
Vorrei un posto in cui nasconderlo, sigillarlo, incapsularlo in un'impenetrabile bolla di ossigeno pulito. E invece in certi momenti il panico mi sale e mi galleggia negli occhi. Resta lì, appeso. Fino al prossimo bollettino di contagio. Come lo metto in salvo, mio figlio?
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