Cronache

"In Donbass non abbiamo toccato un'arma"

Orazio Maria Gnerre, leader del partito comunitarista europeo, smentisce le indiscrezioni giornalistiche che lo descrivono come un combattente delle repubbliche filorusse del Donbass

"In Donbass non abbiamo toccato un'arma"

Ha creato parecchio scalpore un'inchiesta realizzata dall'Espresso sui neofascisti nel Donbass.

Partendo da quattro inchieste giudiziarie, il settimanale diretto da Tommaso Cerno imbastisce un pezzo in cui sembra che un intero esercito di neofascisti sia partito in Ucraina per sostenere l’una o l’altra fazione. Quattro anni fa, dalla Liguria, è partita un’inchiesta su due ragazzini minorenni che si divertivano ad imbrattare i muri con scritto neonaziste e, dalle indagini, è stato scoperto che i due avevano un passato in CasaPound e Forza Nuova.

Entrambi avevano contatti su un folto gruppo di naziskin sparsi in 5 città italiane ed è emerso che tutti sono collegati ad un’organizzazione gerarchica che promuove i suoi militanti in base agli atti di violenza commessi, perlopiù la domenica allo stadio. Una rete di cui fanno parte varie sigle del mondo neonazista e, tra queste, stando al racconto dell'Espresso, anche il Partito comunitarista europeo (Pce), che sostiene apertamente i filorussi nel Donbass.

In realtà Orazio Maria Gnerre, segretario del Pce, spiega a ilGiornale.it, che il suo movimento è qualcosa di completamente nuovo rispetto al fascismo e comunismo del ‘900. “Nella guerra ucraina – spiega - si è dimostrato che i fascisti e gli antifascisti possono andare a combattere per uno stesso Stato, il Donbass, perché la destra radicale crede nel valore dell’indipendenza nazionale ed è contro l’ordine mondiale occidentale mentre all’estrema sinistra piace il fatto che queste repubbliche siano effettivamente popolari e legate alla difesa della storia dell’Unione Sovietica”. “Sia gli uni sia gli altri hanno trasmutato le loro vecchie idee politiche nella teoria delle indipendenze rispetto all’ordine mondiale unipolare. Questo nuovo concetto – aggiunge - è il comunitarismo che dà piena dignità a tutte le culture e crediamo che tutte siano necessarie a quella più grande, quella umana”.

Eppure l’Espresso è convinto che le carte visionate parlino chiaro: esiste anche “un’altra pista che porta alla guerra in Ucraina”. È quella che riguarda quattro cittadini italiani, fermati dalla polizia di frontiera. Tre di loro “sono quasi colleghi” perché uno è un carabiniere congedato, un altro un ex poliziotto e l’ultimo un vigilante privato ancora in servizio. I tre sostengono di essere andati a Lugansk, una delle roccaforti filorusse, per andare a trovare un loro amico. Gli investigatori, dopo alcuni controlli, scoprono che si tratta di Andrea Palmeri, un ultrà neofascista del Lucca. Poi c’è l’esperto di arti marziali che finge di essere un ex parà russo, anche se, in realtà, è di origine albanese e si vanta di aver ucciso decine di terroristi in Cecenia.

Secondo l’accusa, la sua palestra sarebbe una copertura per arruolare in Italia giovani estremisti di destra da spedire a combattere in Donbass tra le file dei neonazisti. Poi ci sarebbe un’imprenditrice italiana la cui società “promuove il raggiungimento dei livelli più elevati di sicurezza in contesti criminale e terroristico internazionale”, promettendo anche agganci “a livello istituzionale” e, secondo l’Espresso, avrebbe la brutta abitudine di mettere il like ai post di Matteo Salvini. All’agenzia della signora è legato un investigatore privato che è finito sotto processo per il sequestro di persona che avrebbe effettuato fingendosi uno 007. Il problema è che combattere a pagamento all’estero è reato così come prevede la convenzione dell’Onu del 1989, ratificata dall’Italia nel 1995. La legge li chiama mercenari, loro si definiscono contractor. Su questo sottile confine giuridico si muove l’indagine dei carabinieri, che ha identificato almeno sei italiani che sono partiti a combattere per le milizie filorusse in Ucraina.

Secondo le autorità di Kiev, però, i combattenti sarebbero almeno 25 e ricoprirebbero ruoli importanti dato che molti hanno un passato da militare come l’ex soldato Antonio Cataldo che avrebbe combattuto anche in Libia per Gheddafi. La procura di Napoli, da quanto risulta all’Espresso, l’aveva inquisito per terrorismo, ma poi ha archiviato l’accusa con una motivazione che esclude finalità eversive. “Cataldo già dal 2011 si era trasferito in Libia per combattere dietro pagamento di danaro insieme alla truppe fedeli al colonnello Gheddafi. Più di recente si sarebbe spostato nel sud-est dell’Ucraina per unirsi alle truppe separatiste filorusse”. Per i pm napoletani, dunque, non è un terrorista, ma“sembrerebbe aver svolto attività militare da mercenario”.

Gnerre, dal canto suo, considera queste inchieste completamente legittime da parte dello Stato italiano ma ritiene che, da parte dell’Espresso vi sia il tentativo“di screditare un’opinione politica antiamericana parlando del rosso-brunismo e delle sue prossimità ideologiche col neofascismo”. “Credo si voglia attuare una criminalizzazione di queste idee e perciò si sposta l’accusa dal livello ideologico al livello giudiziario”, aggiunge Gnerre che ci tiene a precisare di non essere andato in Donbass per combattere. “Nessuno di noi due ha toccato un’arma. Abbiamo solo portato la solidarietà morale dell’opinione anti-imperialista in Italia alla Repubblica di Donesk.

Non abbiamo svolto alcun tipo di attività militare”, ribadisce nuovamente il segretario del Pce.

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